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La Cagliari antica: 1492, arriva a Cagliari il terribile tribunale spagnolo della Santa Inquisizione. Un clima di terrore si diffonde in tutta la popolazione

La chiesa di San Domenico a Cagliari fu sede del tribunale dell'Inquisizione.

La Cagliari antica: 1492, arriva a Cagliari il tribunale spagnolo della Santa Inquisizione. Un clima di terrore si diffonde in tutta la popolazione. L’inquisizione spagnola operò a Cagliari a partire dal 1492 con Sancho Marin. Fu l’inizio di un periodo terribile che fece precipitare Cagliari nel terrore. Il tribunale spagnolo, autorizzato dal papa Sisto IV, aveva il compito di giudicare i reati di fede. Gli uffici del tribunale locale, sede periferica della Spagna, si trovavano in città presso l’antica chiesa di San Domenico per essere poi trasferiti in un luogo detto “Sa Stellada”, presso l’attuale via dei Giudicati. I reati più comuni in questo settore erano le cosiddette “deviazioni di fede”, di bigamia e stregoneria.​

I sospettati, dopo l’arresto, venivano sottoposti a un interrogatorio da parte dell’inquisitore per un’ammissione delle colpe. Coloro i quali non riconoscevano i propri reati venivano sottoposti a tortura, che era una prassi consueta, anche per altri reati. I metodi di tortura più usati a Cagliari dall’Inquisizione erano: la garrucha (carrucola) che consisteva nel legare dietro le spalle i polsi della vittima e sospenderla a una puleggia fissata al soffitto. Spesso ai piedi veniva legata una zavorra e venivano dati colpi di bastone alla fune per aumentare le sofferenze. Il corpo veniva issato lentamente e poi lasciato di colpo ricadere senza fargli toccare il suolo. Era quella più comunemente usata in Sardegna.

Il potro (cavalletto) consisteva nel collocare su una tavola sostenuta da quattro piedi il suppliziato legato alle estremità con delle funi che venivano tese, stirando sempre più il corpo. A questa tortura si sostituiva o aggiungeva spesso quella del cordel con la quale si avvolgevano attorno al corpo e alle gambe corde sottili. Dando di volta in volta ai capi delle cordicelle strette attorno ad un tortore, il carnefice de faceva penetrare nelle carni della vittima.

La tortura dell’acqua (la tuca): si trattava di far ingurgitare per la bocca o per le narici un imbuto di acqua pura, o mista ad aceto, calce e sale. Veniva forzato l’inghiottimento dell’intero contenuto dell’imbuto prima di potere respirare. Questa tortura era spesso usata su imputati compromettenti perché aveva il vantaggio di non lasciare segni esterni. L’accusato veniva disteso supino su un’asse orizzontale e gli si versava sullo stomaco, per mezzo di un imbuto il cui becco era cacciato fino in gola, da 5 a 15 litri d’acqua. Già questo era un tormento sufficiente a generare il panico nell’accusato, perché il terrore di soffocare, causato dall’imbuto e dall’impossibilità di respirare mente l’acqua gli veniva versata in gola, era terribile.


Quando lo stomaco era teso come un otre si inclinava l’asse in modo che l’interrogato venisse a trovarsi con la testa in basso: la pressione dell’acqua contro il diaframma e il cuore provocava dolori lancinanti che, se non erano sufficienti a farlo confessare, venivano aggravati da brutali percosse sul ventre. Oltre a queste pratiche, erano comuni anche l’utilizzo di ferri roventi o lo strappo delle unghie.

L’accusato quasi sempre confessava, visti i tormenti, e veniva condannato. Prima dell’esecuzione veniva sottoposto a una cerimonia, chiamata Autodafé, nella quale dopo una messa il condannato passava tra la folla, scalzo e con un saio. Le condanne più miti erano il remo forzato nelle navi galera o il lavoro nel lazzaretto per l’assistenza dei malati. La denuncia anonima divenne un metodo usatissimo per eliminare nemici. In tutta la Sardegna furono condannate a morte un centinaio di persone.

Non furono pochi i sardi condannati dal tribunale dell’inquisizione: a Cagliari, Donna Catalina Vacca accusata dal Vicerè Duca di San Germano, successore di Camarassa, di aver commissionato ad una fattucchiera la preparazione di una polvere per ucciderlo.

La fattucchiera rea confessa fu impiccata mentre Donna Catalina e la figlia sua complice esiliate. Grazia Pola e la figlia Elena Terres, sottoposte a penitenza per superstizione. Mattia Malla, abitante nel quartiere de la La Pola, processato nel 1540, confessò di aver avuto un diavolo in una ampolla. Isabella Contene: Cagliaritana condannata all’autodafè del 30 novembre 1593, disse di adorare il diavolo Maggiore.

Michele Orrù, condannato all’abiura de Levi nel 1618 per aver contratto un patto demoniaco. Francesca Chigitortu, prigioniera nel carcere del Santo Ufficio insieme alle due figlie nel 1650. Accusate di essere andate a cercare un tesoro su indicazione di un demonio o da una fata che appariva in forme diverse, ora come uomo, ora come donna. Violante Ana e Giovannangela Mura: figlia di Francesca Chigitortu, 17 anni.

Nei dintorni di Cagliari, a Maracalagonis furono condannate a morte entrambe nell’autodafé del 1526 Anna De Sesto e Giovanna Sesto. A Monserrato venne condannata a morte nell’autodafé del 1527 Elena Madello. A San Sperate: Annetta Esquirru, denunciata 32 volte nel 1725, Antonia Melis, vedova di 44 anni, denunciata 17 volte nel 1725, Caterina Casti: 60 anni, denunciata 40 volte nel 1725: arrivò ad autodenunciarsi. Dichiarò di sapere tre tipi di Brebus: contro s’ogu pigau, dolori generici e dolori delle ossa. Caterina Anna Manca: 38 anni, denunciata 6 volte nel 1725. Francesco Esquirru: 65 anni, sposato, era conosciuto come fattucchiere in grado di fare “is Nuus”, pratiche malefiche atte a fare in modo che uomini e donne non potessero avere rapporti carnali. Venne accusato da una certa Lucia Contini. Venne accusato anche di aver fatto morire un certo Francesco Diego Cocody grazie all’intervento del diavolo.

 

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