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Letto per voi. Il volto della miseria umana in nove racconti: “Il violinista del diavolo” di Marco Conti

Nove racconti. Nove storie. Nove narrazioni di vite, più o meno spezzate, più o meno desolate. In “Il violinista del diavolo” non c’è miele e non c’è perdono. C’è solo la miseria umana, quella che non ha scuse né pretesti, quella che non si può nascondere sotto il tappeto come fosse polvere che non si vuole raccogliere, quella con la quale dobbiamo convivere – nostro malgrado – ogni giorno. La miseria umana perché siamo esseri umani e non c’è redenzione, per noi, non c’è perdono e non c’è rispetto. C’è solo il susseguirsi di giorni vuoti, tristi e con un solo comune denominatore: l’ingiustizia.

Il violinista del diavolo, Marco Conti appunto, unisce queste nove storie e le fa convivere sotto lo stesso tetto. Tutte d’altronde sono capaci di mostrarci il baratro più nero, di gettare le nostre ossa spoglie – quello che rimane di noi dopo la lettura – nel pozzo, là dove l’acqua è melmosa e sgradevole.

“Ma ci sono momenti in cui la vita coglie impreparati e disarmati. In cui colpisce quando non ce lo si aspetta, mentre si tiene la guardia abbassata. Mentre ci si distrae a guardare il panorama dal finestrino di un treno in orsa. E ci si rilassa pensando che sia arrivato il momento di raccogliere i frutti del proprio cammino, di godere delle piccole cose. Di riscoprire un nuovo modo di stare al mondo. un nuovo sapore. Quello delle cose non fatte in giovinezza, evitate a causa dei ritmi di lavoro. Rinviate a causa dei doveri da rispettare. Rimandate a quando ci sarà più tempo.”

C’è l’ingiustizia della vita che viene strappata sul più bello, quando ci si può godere la meraviglia di ogni nuova alba senza preoccupazioni o impegni lavorativi.

C’è la tristezza di una disabilità che è guardata da tutti con occhi sbagliati, mai equi e giusti ma solo compassionevoli – e talvolta la sola compassione altro non è che una lama che si conficca nel cuore.

C’è lo sconforto di una donna maltrattata che fugge dal marito, spaventata e sola, convinta di essere la causa di tutto quell’odio, di tutta quella cattiveria, di quelle botte e di quelle umiliazioni.

C’è il peso della convinzioni sbagliate, quelle che è facile difendere quando qualcosa non si capisce.

“Che non c’è scritto da nessuna parte che dall’unione tra un uomo del Senegal, nero, e una donna sarda, bianca, debba nascere un bambino color caffellatte. Che i colori sono solo dei filtri attraverso i quali l’essere umano decodifica la propria stupidità. E si ricorda della propria ignoranza.”

C’è la delusione della vita che dà, certo, ma che prende anche tanto. Che si aspetta tanto. Che non permette inciampi, non senza conseguenze almeno.

Ci sono abissi e rimorsi, ci sono scelte da fare che sono non sempre giuste. C’è il buio più cupo, quello nel quale “le stelle, nemmeno loro, hanno il coraggio di illuminare il presente, e sono andate a nascondersi dietro le nuvole cariche di pioggia”. C’è il Natale, non quello dell’albero addobbato, delle luci e dei regali, ma quello angosciante di chi ha perso tutto.

Con uno stile essenziale, Marco Conti ci mostra – senza mezze parole o cucchiaiate di zucchero per mandare giù l’amaro – il volto dello squallore umano. Non è bello, non è rilassante né esaltante. È solo folle e triste insieme. Ma è di questa follia e tristezza – questo è chiaro durante la lettura – che ci nutriamo, giorno dopo giorno.

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