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Il grido disperato della cardiologa Mereu dell’ospedale Sirai di Carbonia: «Ho il dovere di raccontare la situazione»

Inizia con uno sguardo nostalgico al passato, il lungo post che la dottoressa Ilaria Mereu ha affidato qualche giorno fa al proprio profilo Facebook. C’è risentimento, sì, ma anche una gran voglia di giustizia. Turbamento, tanto, speranza, poca. Quando il suo lavoro da medico iniziò, racconta la Mereu, tante cose erano diverse, all’ospedale Sirai di Carbonia. Il pianto dei bambini al nido, i pancioni delle mamme in attesa: quando era triste, bastavano i vagiti di quei bambini a farle tornare il sorriso.

«Era la mia conferma che in un ospedale si soffre, qualche volta si muore, ma anche miracolosamente si nasce. E puoi curare le persone. E farle guarire un po’.»  Ricorda quasi con amarezza – come quando la mente va indietro, spazia a momenti più belli, più giusti, più sani – il giro in Oncologia, un sorriso regalato a chi soffre. Perché solo chi in quei corridoi ci ha pianto, si è disperato, ha gridato e invocato pietà sa quanto è importante donare un po’ di serenità. Passava di lì in silenzio, certo, ma «ma con un sorriso sempre grande, perché solo chi ha lavorato lì sa quanto può essere prezioso un sorriso silenzioso

Le cose andavano bene, dice la Mereu, si lavorava sodo ma i pazienti si potevano salvare. C’era l’H24, il reparto di emodinamica sempre operativo, gli ortopedici di notte. Insomma, qualunque emergenza poteva essere affrontata.

Poi il suo racconto si sposta. Adesso. Adesso le cose non sono così. Niente bambini, i palloncini sono ancora appesi al vetro in quello che è un silenzio tombale, sono spettri di un passato che torna a fare capolino. Nemmeno i pancioni, ovviamente, si vedono più. Le donne che devono partorire o farsi togliere un fibroma devono recarsi a Iglesias. Molte vanno direttamente nell’attrezzata Cagliari. Ma non è solo questo il problema. «Bene, ma se ti viene un infarto nel weekend o di notte almeno hai l’emodinamica a disposizione? Ehm… Solo se weekend significa venerdì, ma fino alle 16 però, perché dopo bisogna partire a Casteddu.»

Cagliari. Lì c’è tutto – scrive Ilaria Mereu – c’è l’H24, Ginecologia, Pediatria. Poi continua. Si legge un po’ di rassegnazione tra le righe, una sorta di cupo presagio che però inquieta un medico che ha deciso che la sua missione è salvare vite. «È andata così. In fondo siamo la provincia più povera, siamo abituati. A perdere i servizi essenziali e a stringere i denti e alzare le spalle.»

Ecografi, monitor, PC che non funzionano da mesi. Esami da mandare fuori. Farmacia chiusa per mancanza di personale. Ortopedici che non ci sono più la notte. OSS che gestiscono da soli una mole di lavoro enorme. Farmaci e garze che finiscono.

«Mi dispiace. E molto. Questa è casa mia. E almeno ho il dovere di raccontarlo. Lo devo a chi per buon senso lavora comunque in queste condizioni, medici, infermieri, oss e tutti quanti. Chissà che quel silenzio non dia fastidio, finalmente, a qualcuno.»

E una speranza. Che qualcosa cambi, benché sia difficile. Che la situazione migliori. Che quella che è la sua casa torni ad essere un luogo dove affrontare qualsiasi tipo di emergenza.

Riportiamo integralmente il post della dottoressa Mereu:

«Quando ho iniziato a lavorare in ospedale avevamo un reparto piccolo, in un’ala del terzo piano, con un’Utic che sembrava ricavata in un angolino e gli ambulatori in fondo al corridoio. Dalla stanza del medico di guardia, appiccicata all’Utic, la notte sentivo i beep dei monitor come fossero lì e per fare il caffè in quattro passi ero in cucina e si scambiavano due chiacchiere veloci per poi ripartire. Quando ero un po’ triste salivo al quarto piano e appena le porte dell’ascensore si aprivano cominciavo a sentire i vagiti dei neonati del nido. Col naso incollato al vetro, osservavo le culle e guardavo quelle minuscole manine agitarsi e le guanciotte rosse gonfiarsi nel sonno e le infermiere che li maneggiavano con disinvoltura e destrezza e io respiravo un po’ di vita. Era la mia conferma che in un ospedale si soffre, qualche volta si muore, ma anche miracolosamente si nasce. E puoi curare le persone. E farle guarire un po’. E io ne avevo conferma tutti i giorni. Pochi minuti di tenerezza e via, mi giravo e passavo in ginecologia: pancioni giganti e palloncini colorati appesi ai letti, il chiacchiericcio delle infermiere allegre che si curavano di tutte quelle donne: le donne, il fulcro del mondo, ciò da cui tutto parte… E io, nostalgica romantica da far schifo, non rinunciavo a passare in Oncologia, dove mi legano sempre stupendi ricordi del tirocinio prespecializzazione, quando ancora non sapevo se avrei curato il cancro o seguito… il cuore. Ci entravo in punta di piedi, alle spalle il chiasso della gineco e i colori della pediatria. In silenzio ma con un sorriso sempre grande, perché solo chi ha lavorato lì sa quanto può essere prezioso un sorriso silenzioso. E io lo sapevo. Va beh… Ora però torniamo in reparto che c’è da continuare il giro e sono sola e devo pure dimettere 3 pazienti e vedere 2 consulenze… Aspe’.. Cosa? È arrivato un infarto? Volo!! Chiamo subito in emodinamica prima, e avviso che preparino la sala e chiamo il reperibile per fare prima. È domenica ma abbiamo l’H24 e sono tranquilla».

«Oggi, molti anni dopo, quando sono un po’ triste esco in terrazzo, ora siamo al 5 piano, dove alcuni vanno a fumarsi una sigaretta e io a vedere il panorama: c’è un panorama pazzesco sull’isola di Sant’Antioco e il vento che tira sembra possa riconciliarti col mondo per qualche minuto. E i bambini? Beh. Non li vedo più. Non ci sono più. Sono rimasti i palloncini attaccati al vetro, ma al quarto piano c’è silenzio. E i pancioni? Anche quelli spariti… Se una donna vuole partorire o farsi togliere un fibroma deve andare ad Iglesias, ma molte preferiscono fuggire a Cagliari. Bene, ma se ti viene un infarto nel weekend o di notte almeno hai l’emodinamica a disposizione? Ehm… Solo se weekend significa venerdì, ma fino alle 16 però, perché dopo bisogna partire a Casteddu. Bella Casteddu, lì c’è tutto. C’è la Pediatria, la Ginecologia, l’H24. Ma qui a Carbonia che vuoi pretendere… È andata così. In fondo siamo la provincia più povera, siamo abituati. A perdere i servizi essenziali e a stringere i denti e alzare le spalle. Tanto è così. Va beh dai, io faccio il mio dovere. Ora faccio una consulenza e pure un ecocardiogramma. Oh… Ma guarda… Non posso farlo, l’ecografo non funziona! E dire che lo abbiamo segnalato già da mesi… Peccato, cosa dirò al paziente? Che non posso guardare le sue valvole come vorrei, anche se non dipende da me. E allora anche oggi mi arrabbio, mi infurio, mi ribello e mi sfogo col collega e chiedo spiegazioni, risposte, aiuti. Silenzio. Aspettiamo.»

«Intanto squilla il telefono: la Collega della Medicina. “Ila, ho solo bis, mi presti un letto?” E certo, che ci vuoi fare… Se non ci aiutiamo fra di noi…Però fammi controllare se è quello di cui non funziona il monitor che ancora non hanno riparato… Ok, ti lascio che è arrivato un Ecg da Iglesias, via fax, perché non c’è il Cardiologo lì, e lo devo refertare. Toh, guarda, ne è arrivato anche uno da Carloforte, ora mi chiama il Collega per avere un consiglio. Mi sposto nell’altra stanza a refertare perché qui non hanno riparato il PC: beh, quelli del Servizio informatico sono rimasti in pochi e non è che possano correre subito ad aggiustarlo. Come, signora? I farmaci in dimissione? Guardi, passi alla farmacia dell’ospedale così glieli danno… Ah, è vero, è chiusa, perché non c’è più personale. Aspetti, le faccio una ricetta. Di nuovo il telefono: ciao, sono il Chirurgo, mi fai la consulenza a questo signore con la frattura di femore? Ma che te ne frega, scusa, sei il chirurgo, mica l’ortopedico… Eh certo Ila, ma gli ortopedici non fanno più le notti, non lo sapevi? Bene.E potrei continuare. Con gli OSS stravolti di notte, soli con mille incombenze, gli esami di laboratorio che vengono inviati fuori, i farmaci che finiscono e qualche volta anche le garze.
Ma a parte questo, che è solo la punta dell’iceberg, perché non ho parlato del burnout, del pericolo continuo di certe situazioni, della disorganizzazione più totale… La cosa che più mi sconvolge è il silenzio. La gente dov’è davanti al silenzio? Dove sono le mamme dei bambini? I parenti dei pazienti infartuati portati a Cagliari? I pazienti a cui ho detto: mi dispiace, non posso fare l’ecografia?»

«Tutto tace. Come in pediatria, come in Emodinamica di notte, come davanti al monitor spento dell’ecografo. Beh. Mi dispiace. E molto. Questa è casa mia. E almeno ho il dovere di raccontarlo. Lo devo a chi per buon senso lavora comunque in queste condizioni, medici, infermieri, OSS e tutti quanti. Chissà che quel silenzio non dia fastidio, finalmente, a qualcuno.  Ma non nutro grandi speranze. Buonanotte, dopo 12 ore di guardia mi resta il ricordo di un caffè tutti insieme in cucina e di quattro risate almeno per sdrammatizzare un po’…»

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