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Il rito funebre ai tempi dei nostri bisnonni. Antiche usanze perdute: la morte in s’antigu

foto di archeolbia.blogspot.it

 

Oggi la medicina permette di dare una spiegazione a tutto. È quasi impossibile che qualcuno lasci questa terra senza che ci sia un motivo certificato e scientificamente definito.  Nell’antichità, tuttavia, non era così. Le malattie non avevano tutte un nome e un perché. Adesso è possibile venire curati anche da patologie molto gravi. Ai tempi dei nostri bisnonni, anche un raffreddore poteva uccidere.

Come sempre avviene quando non si trova una logica in qualcosa, anche allora si chiamava in causa qualcosa di più grande. Si tratta di un modo per non rimanere con una domanda senza risposta. Ecco perché in alcuni casi la sentenza era: «Ir mortu de male de Deusu.»

Dio ti prendeva con sé, e non c’era nessuna logica, in questo, nessuna regola a cui appellarsi e nessuna lamentela che si potesse rivolgere al cielo. Era così e basta. La morte di un bambino non era poi così strana, anzi, si pregava perché almeno gli altri rimanessero sani. Perché Dio non li volesse con sé. Perché potessero crescere e correre.

Nel caso di morti inaspettate e veloci, si diceva semplicemente che quella persona fosse morta “de repente” (improvvisamente). Quest’eventualità era accettata come qualcosa di inevitabile.

A Villagrande, se il morto era sposato, doveva vestire – per il suo ultimo viaggio – l’abito del matrimonio, ossia il costume. Così come la vita coniugale era un inizio, anche la morte – in modo macabro e ineluttabile, certo – rappresentava un passaggio da una vita a un’altra, da quella terrena a quella celeste, da quella dei vivi a quella dei morti. Sul letto, sopra una pelle di pecora, veniva adagiato il defunto affinché tutti i conoscenti potessero piangerlo durante la veglia. La moglie e altre donne della famiglia cantavano in sardo ricordando la sua vita. Figli, lavoro, imprese: tutto ciò che aveva caratterizzato i suoi giorni – e che quindi lasciava in sospeso – era usato per comporre i ritornelli.

Oggi, è il carro funebre che trasporta la pesante bara di legno e zinco fino al cimitero. La folla procede, lenta e mesta, dietro all’auto. Si ricorda chi non c’è più, sguardo a terra e lacrime agli occhi. Si prega se si è religiosi, si piange anche se non lo si è. Allora invece, il morto veniva messo sopra una barella (sa lettera) e portato in spalla fino all’ultima tappa. Durante il tragitto, continuavano i canti in suo onore. I pianti a voce alta. I ritornelli. Veniva cantato al cielo il dolore per quella perdita, un dolore immenso che veniva sprigionato con forza, con tradizione.

Ancora le bare non erano diffuse. Non c’erano le tombe in cemento o in marmo. Il corpo veniva restituito alla terra adagiato nella barella calata su una fossa. Ognuno dei presenti buttava un pochino di terra sul corpo del proprio caro. Una sorta di augurio affinché riposasse in pace. Il rituale di cenere alla cenere e polvere alla polvere terminava con una croce di legno sul mucchio di terra. Nome, data di nascita e data di morte: ecco le uniche cose importanti, quelle che venivano scritte sulla semplice croce. Dopo il funerale, le condoglianze. Le frasi di circostanza che erano pronunciate in queste occasioni sono usate ancora oggi: «A du connosce in su celu» e «Coragiu, a’ fattu sa parte sua».

L’invito successivo era fatto “per l’anima del morto”.

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