Antichi mestieri. La storia di Angelo Argiolas, “Su maist’e muru sadilesu”
A raccontarci quest'antico mestiere, che continua ad essere tramandato nel tempo, è il signor Angelo Argiolas di 78 anni, nato e cresciuto nel paese di Sadali
A cura di Rita Coda Deiana
Nell’origine delle pietre, che costituiscono la materia prima del paese antico di Sadali, nel cuore della Barbagia di Seulo, ritroviamo la stessa tenacia dell’uomo che ha edificato la propria esistenza partendo da elementi essenziali. E a quell’essenzialità mi affido per portare avanti il mio viaggio tra gli antichi mestieri, che intende indagare per conoscere e far conoscere ciò che di immutabile vive tra le vie del Paese dell’Acqua.
E’ in questo scenario incredibile, dove Natura e Uomo si incontrano, che l’antico mestiere diventa la bussola del Presente, lo Specchio nel quale intravedere nuove prospettive per il futuro, nuove strade da percorrere. Il bandolo del filo degli antichi mestieri, questa volta mi ha guidata a conoscere uno dei mestieri più antichi e popolari, che ancora oggi è fonte di memoria e di continuo insegnamento: quello del muratore (su maist’e muru).
A raccontarci quest’antico mestiere, che continua ad essere tramandato nel tempo, è il signor Angelo Argiolas di 78 anni, nato e cresciuto nel paese di Sadali. Come e quando nasce la passione per questo antico mestiere?
Signor Angelo racconta che quando era ragazzo le scelte dei mestieri erano pressoché limitate. Le nuove generazioni potevano scegliere tra la lavorazione della terra, (orti e vigne), oppure il pascolo delle greggi. Fin da quando era bambino era affascinato dalla figura del muratore, e dai lavori che riusciva a realizzare con materiali semplici ed essenziali, e la sua più grande aspirazione era quella di intraprendere il mestiere de su maist’e muru. Poiché era ancora giovanissimo, il padre gli consigliò di apprendere un altro antico mestiere, quello del calzolaio, (su sabatteri), un antico mestiere utile alla comunità, ma destinato a scomparire con l’affermarsi della società dei consumi.
Signor Angelo intraprese per un breve periodo il mestiere de su sabatteri con il signor Edoardo Meloni, ma per poi ritornare a quella che era sempre stata la sua passione, svolgere il mestiere de su maist’e muru. E’ all’età di 15 anni, fino alla partenza per il servizio militare di leva, che iniziò il suo percorso lavorativo, seguendo gli insegnamenti del maestro muratore Angelino Carcangiu di Sadali. Dopo il congedo militare, riprese la sua attività lavorativa con il signor Angelino, per poi dopo un anno, intraprendere l’attività del muratore in piena autonomia.
Signor Angelo racconta che esordì la sua attività con poche risorse, e gli strumenti che aveva a sua disposizione erano pochi ma preziosi: delle tavole di legno da ponteggio (is taulonisi), due cavalletti ( is cavalletusu), il paiolo di ferro (su paiolu ‘e ferru), la pala (sa pàlia), la cazzuola (sa palita), il piega ferro (scandaliera), il martello strappachiodi, una grossa mazza per spaccare le pietre (su mallu) e lo scalpello (su scrafeddu). In passato, i primi muri delle abitazioni, venivano realizzati con roccia di scisto (schistu) e in seguito con le pietre calcaree locali (sa preda de Nuraxi ‘e Istria), un tipo di pietra molto resistente all’usura e al gelo, grazie alla durezza e alla consistenza. Per la fase dell’incatenamento (legatura) dei muri in pietra, si utilizzava la malta di fango e poi, in seguito si preferì la muratura con la sabbia (s’arena ‘e taccu), che si trovava nel territorio di Sadali.
La sabbia, negli anni sessanta era presente in tutto il territorio locale. Per la ricerca dei sedimenti della sabbia, si
procedeva prima allo scrostamento della superficie dove era ubicata, in modo tale da eliminare il terriccio scuro, e subito dopo si filtrava la sabbia, che veniva trasportata nel centro abitato sui carri di legno, trainati dal giogo dei buoi (càscia ‘e arena).
Le pietre locali utilizzate per la muratura, per un breve periodo vennero sostituite con le pietre di Nureci, più leggere e facili da lavorare, ma con il tempo e il clima locale, questo genere di pietra spugnosa, si presentò inadatta alla costruzione delle case locali, anche perché era soggetta ad assorbire l’umidità, e Sadali era ed è un paese dove la presenza dell’elemento naturale dell’acqua è preponderante, così come anche il freddo e il ghiaccio, che contribuivano, ulteriormente, a deteriorare la pietra di Nureci.
Ogni muratore, veniva identificato dalla muratura in pietra che realizzava, quasi come fosse un “biglietto da
visita, una firma”. Il muro rappresentava l’identità di colui che lo aveva realizzato. Signor Angelo spiega
che per la muratura in pietra si dovevano seguire delle regole.
Ogni muro in pietra che si realizzava, doveva essere collegato (muru crau). Nello spigolo della muratura della casa, andava posizionata la chiave “sa contonada”, una pietra di dimensioni più grandi rispetto alle altre, e poi “sa contro contonada” e ogni pietra doveva trattenere altre due pietre. Il muro di 50 cm di spessore, doveva essere collegato da una parte all’altra e affinché questo si verificasse, si sceglievano delle pietre di forma triangolare allungate e queste dovevano essere inserite in modo tale da poter chiudere la muratura da ambe due le parti. Ogni muro di pietra doveva essere realizzato perfettamente, e non era accettabile la presenza di spazi ( muru sperrau o pei de casu) tra una pietra e l’altra.
Per quanto riguarda la tecnica di cerchiatura, ossia il sistema di legatura e consolidamento delle strutture murarie destinate alla realizzazione delle aperture degli infissi delle case, si posizionava esternamente sui lati verticali una pietra allungata (sa cartera) e una seconda pietra internamente (sa contro cartera) e infine con “sa trumpadura”, si procedeva a puntellare con “is trumponisi”, che fungevano da sostegno, per i lati dell’apertura. Al di sopra degli elementi portanti degli infissi, era presente l’architrave, che aveva il compito di chiudere e sostenere il carico delle strutture sovrastanti e trasmetterlo verticalmente sulle parti murarie alle quali si appoggiava. L’architrave, che era in legno di castagno, veniva denominato “s’arcittu” quando era disposto orizzontalmente e “su bussoni” , se posizionato a semicerchio.
Con il passare del tempo gli architravi si realizzarono in calcestruzzo (is s’arcittusu e bussonis in ciumentu). Con l’avvento dei nuovi materiali per l’edilizia, si incominciarono ad utilizzare i blocchetti di cemento, anche se nei primi tempi, per la loro fabbricazione, a causa dei costi elevati, si faceva uso di materie scadenti e di conseguenza, anche questi manufatti, con il tempo, furono destinati a deteriorarsi. Con il decorrere del tempo e l’introduzione nel campo dell’edilizia dei nuovi laterizi come i mattoni, spesso a vista, le cose migliorarono, sia dal punto di vista del sistema costruttivo a blocchi, sia dal punto di vista strutturale, che portò maggiore rigidezza, ma anche maggiore stabilità. Accantonato l’utilizzo del fango come malta per legare le pietre, si passò poi alla calce.
Per la realizzazione della calce, in tutto il territorio locale, erano presenti delle fornaci. Dei grandi forni di circa tre, quattro metri di diametro con apertura frontale, che venivano riempiti di pietre. Nella parte bassa delle fornaci si appiccava il fuoco che veniva alimentato per diversi giorni (circa una settimana) dalle fascine di legna, e quando si raggiungeva l’elevata temperatura, avveniva la cottura delle pietre, che poi davano origine alla calce. Le pietre che poi
avrebbero dato origine alla calce, venivano vendute a peso.
Il signor Angelo, racconta che per la realizzazione della calce, si realizzava una fossa con un bordo spesso di sabbia (sa balza), all’interno della quale si sistemavano le pietre che avevano subito precedentemente il processo di cottura. Le pietre dovevano “sfiorire” (sfroriri) e affinché questo si verificasse, dovevano essere bagnate con l’acqua. Le pietre si aprivano (sfiorivano) e poi si aggiungeva un ulteriore quantitativo abbondante di acqua e si amalgamava il tutto. Da questa lavorazione, si otteneva un materiale cremoso dal colore bianco che poi veniva utilizzato per l’impasto che si realizzava con tre pale di calce (sa carcìna) e sei o nove pale di sabbia (s’arena). Per la lavorazione dell’impasto e per comprimere la calce, si utilizzava un attrezzo denominato “Sa Muriga”. Poi con il tempo, per impastare e miscelare la calce, malta e altri materiali, si passò all’utilizzo della betoniera.
Come si eseguivano i primi solai divisori delle case di Sadali?
I primi interpiani, nell’ambito delle case a più piani, si realizzavano con delle travi in legno di castagno (su staulu), sulle travi si posizionavano delle tavole maschiate in legno di abete, ad incastro l’una con l’altra. I chiodi che si utilizzavano per fissare le tavole, venivano realizzati dal fabbro (su ferreri) e si chiamavano “acciousu de staulu”. Ma le tavole in legno di abete, quando si impregnavano di umidità, aumentavano di volume, creando così delle problematiche al solaio, ecco perché poi con il tempo, si utilizzò il calcestruzzo.
Era consuetudine, nella realizzazione del solaio divisorio, utilizzare il sottotetto (su staulu falso/falsu) non abitabile, per la conservazione delle provviste. Nella costruzione dei solai in calce, era di fondamentale importanza la presenza e l’aiuto delle donne di Sadali, che trasportavano l’impasto con i paioli, allora di ferro, posizionati sulla testa. Per attutire il peso del paiolo, utilizzavano del tessuto annodato su se stesso che andava a formare un cerchio… il cercine (su tidili). Affinché le donne potessero accedere al solaio, veniva realizzato “su scalandroni”, che era una scala in legno, con una pendenza non molto ripida, in modo tale da poter salire senza l’ausilio di nessun corrimano.
Le abitazioni di Sadali, in passato, erano sprovviste di strutture che coprivano l’edificio, così per evitare il caldo estivo veniva spennellata la calce sul solaio, in seguito, si passò all’utilizzo delle fascine di legna che isolavano sia dal caldo che dal freddo. Successivamente con l’avvento dei nuovi materiali isolanti, come la lana di roccia e il poliuretano, si realizzarono dei cappotti termici.
I primi tetti che si costruirono erano senza coibentazione e quasi sempre a vista, realizzati con travi di legno di castagno e canne palustri stagionate (s’incannau), tra le quali e sulle quali veniva colato un impasto a base di “arena ‘e Taccu”, calce e paglia, invece, precedentemente veniva utilizzata l’argilla, il tutto fungeva da sostegno direttamente per le tegole sarde (sa téula sarda).
In passato, le canne venivano tessute, con il giunco (su sessini), poi in seguito con il fil di ferro, in modo tale che risultassero accostate l’una a l’altra il più possibile. Più le canne erano affiancate, più solido e duraturo risultava il tetto.E’ da circa 20/25 anni, grazie anche al recupero dei centri storici, che sui tetti delle case del paese antico di Sadali, sono presenti le tegole sarde. Le nuove venivano utilizzate per i canali di gronda e quelle antiche per coprire l’intera superficie del tetto. In passato per fermale si utilizzavano i sassi, posizionati lungo il perimetro del tetto, quindi le tegole risultavano arieggiate e duravano un’eternità.
Ma con l’avvento della calce, la procedura della messa in posa delle tegole variò, causando, con il passare del tempo, delle serie problematiche al lavoro realizzato. Infatti le tegole si deterioravano facilmente, perché l’acqua piovana non avendo una via di sfogo, impregnava la tegola di umidità e con la brina, si spaccavano. Con il metodo della messa in posa libera della tegola, questo non si verificava, perché l’acqua piovana aveva la possibilità di defluire e la tegola arieggiata asciugava con più facilità. Oggi i tetti si realizzano a “secco”, con un tipo di tegola denominata “cementegola”, un manufatto di cemento più resistente alle flessioni e carichi, e con una garanzia di più anni, perché munito di attestazioni di conformità e qualità.
Ma che genere di impalcature si utilizzavano per le costruzioni delle abitazioni?
Le prime impalcature erano in legno, realizzate con i tavoloni e i cavalletti. A quei tempi le misure di sicurezza sul lavoro, erano pressoché assenti, signor Angelo racconta che lavorava per 10 ore al giorno, compreso il sabato e mezza giornata la domenica. Le impalcature si ancoravano al muro, a distanza di circa un metro, con un cuneo di legno, e alla fine dei lavori, ogni foro veniva evidenziato da una lettera dell’alfabeto, (spesso si riportavano le iniziali dei proprietari dell’edificio), questo avveniva per facilitare il lavoro in previsione di nuovi interventi nelle facciate delle abitazioni.
Su forru a linna nel paese di Sadali
Un tempo il forno sardo (su forru a linna) era presente in quasi tutte le abitazioni del paese di Sadali, e quando questo non era possibile, le donne si riunivano per la panificazione con le vicine di casa ( a fai su pani in domu). Era un’attività tipicamente femminile dove tutte le donne collaboravano e si aiutavano a vicenda, era compresa anche la partecipazione delle bambine. Il giorno della preparazione del pane, veniva vissuto con grande partecipazione e gioia, con le donne adulte, che raccontavano degli aneddoti alle bambine. Era usanza, dopo la panificazione, far dono del pane ai parenti e alle persone che non avevano panificato.
Signor Angelo, esperto costruttore di forni sardi, mi ha raccontato i vari passaggi per la realizzazione di un forno. Preferiva realizzare prima la base del forno a forma circolare, sostenuta da due muretti di pietra o mattone, adagiata su un piccolo solaio in calce, realizzato in passato con tronchi di legno, o larghe pietre (pedra lada) oppure con tavole di castagno. La base del forno si realizzava con la calce in polvere (carcina vergine).
Signor Angelo, per erigere la muratura in mattoni del forno, posizionava un chiodo nella parte centrale della base, da dove faceva partire un raggio con lo spago. Con lo spostamento dello spago, si creava una semicirconferenza che era la base per i mattoni che avrebbero dato vita al forno a forma di cupola. La cupola realizzata in muratura, veniva sostenuta fino all’asciugatura, da un cuneo. Durante la costruzione del forno, era di fondamentale importanza, posizionare un cestino (palini) di vimini nella volta della cupola, che rappresentava la curvatura, concava all’interno del forno. Per assicurare la resa termica del forno, per il piano di cottura si utilizzavano: lo scarto del carbone delle locomotive (su scatta ‘e ferru) e la paglia (sa palla).
Sopra il carbone e la paglia si adagiava la terra per i forni (sa terra ‘e forru) che veniva impastata a lungo.
La lavorazione avveniva a mano e risultava faticosa, oggi il lavoro viene facilitato dall’ausilio dei trapani elettrici. “Sa terra ‘e forru” è un’argilla particolare dal colore rosso, dovuto alla presenza dell’ossido di ferro. E’ presente nel territorio di Sadali e per l’utilizzo veniva prima pressata e poi filtrata, in seguito bagnata e impastata a lungo. Signor Angelo si auspica il recupero degli antichi mestieri come quello de su maist’e muru, e che le nuove generazioni possano valorizzarlo, anche se è un mestiere impegnativo e faticoso. Che possa rinascere la passione per questo mestiere, affinché si possa riprodurre con le conoscenze acquisite nel tempo, un recupero che diventa la chiave di volta di un percorso in continuo divenire. Perché è in questo percorso che la memoria incontra il presente in un’ottica dell’avvenire che si fa sfaccettata e multidisciplinare.
Gli antichi mestieri, dove le mani plasmano e modellano un’idea astratta che si concretizza sempre di più fino ad avere la valenza simbolica dell’essenza, e cioè dell’essere al di là dell’apparenza. In quest’ottica rinnovata le persone intraprendono un viaggio che parte dal più profondo sé e trasforma il divenire in una serie di nuove scoperte.
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