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Difendere le piccole comunità come ultime sentinelle di cultura millenaria. Perlato: “Senza paesi non sarà più Sardegna”

Di Massimiliano Perlato

La Sardegna è stata caratterizzata per lunga parte della sua storia da una vicenda demografica e insediativa assai peculiare per un’isola, quella cioè di coste quasi disabitate e di una popolazione che è rimasta a lungo concentrata nelle zone interne della stessa isola. Sono note le cause storiche di questa vicenda (coste malariche ed esposte alle incursioni dell’invasore di turno).

Questa antica caratteristica della Sardegna è oggi completamente rovesciata: anche chi percorre con occhio da turista l’isola nella lunga estate sarda, percepisce chiaramente come le coste siano intasate, come a certe ore si viaggi con i tempi di percorrenza di Roma o di Milano, ma basta spostarsi di pochi chilometri verso l’interno ed ecco che si ha la netta sensazione di spazi vuoti, di rare automobili che si incrociano, quasi di paura che la nostra automobile si pianti e che si resti soli e sperduti nel deserto. Le rilevazioni anagrafiche dei Comuni, confermano un fenomeno e una tendenza ormai noti da tempo, ossia il progressivo declino demografico di vaste zone cosiddette interne della Sardegna. Non è una novità in assoluto, ma quello che i dati mettono in luce è il rischio di una vera e propria irreversibilità di questo processo.

Ciò che in particolare colpisce è che anche quelle aree interne, quei comuni medi delle Barbagie, che fino a qualche tempo fa per lo meno “tenevano” in termini di popolazione, mostrano una accelerazione consistente nello spopolamento: le morti superano costantemente le nascite e i trasferimenti di residenza aumentano anno dopo anno senza che siano neanche parzialmente compensati da nuovi arrivi, senza contare i casi numerosi di chi mantiene soltanto una residenza anagrafica ma vive, studia o lavora fuori da questi comuni. Si tratta dunque di un processo che, una volta superata una soglia critica, si autoalimenta costantemente.

Dapprima le variabili sono demografiche: meno nascite, conseguente invecchiamento della popolazione e quindi minore fecondità e minori nascite. In seguito, variabili sociali ed economiche entrano pesantemente in gioco: se la popolazione diminuisce, alcuni esercizi commerciali che non sono più redditizi chiudono, alcuni servizi pubblici (poste, scuole, servizi sanitari) che risultano sovradimensionati chiudono. Ogni chiusura, ogni diminuzione di servizi non fa che accelerare l’esodo di chi ha bisogno proprio di questi servizi venuti a mancare. La logica ragionieristica oggi imperante sulle spese pubbliche non fa che accelerare questa dinamica, l’insicurezza crescente delle persone e delle cose (anche lo Stato, la forza di polizia, costa!), spinge anche i più capaci, quelli che vorrebbero restare e “fare”, ad andarsene. E il fatto che questi territori in via di desertificazione demografica contino sempre meno anche in termini elettorali per la diminuzione dei voti che esprimono certamente contribuisce ad alimentare questa spirale perversa.

Che futuro c’è per queste vaste zone che ormai rappresentano oltre la metà del territorio sardo? È immaginabile una Sardegna vuota all’interno, consegnata alla insicurezza e al vandalismo crescente e a un degrado irreversibile dal punto di vista demografico, sociale ed economico? Possiamo immaginare le zone interne ridotte a una sorta di “riserva indiana”, nella quale una popolazione accampata sulle coste si limita a qualche incursione nei territori barbarici dell’interno per vari approvvigionamenti? Chi ancora resiste nei paesi dell’interno, probabilmente vive bene, o almeno abbastanza bene. Ha spazio, aria pulita, cibi generalmente genuini. D’estate poi, quando in molti tornano per qualche giorno al paese d’origine, può apprezzare, tra uno spuntino in compagnia e una sagra paesana, una qualità di vita raramente riscontrabile altrove. Il ruolo degli amministratori locali non è certo invidiabile.

Anche quelli più lucidi e consapevoli del degrado della situazione (e sono tanti) sono spesso soli: presi tra gruppi locali di prepotenti che fanno valere interessi non sempre limpidi, in mezzo a una popolazione locale spesso rassegnata, apatica e diffidente verso ogni novità; tra uno Stato e una Regione Sardegna spesso distratti o del tutto sordi verso territori che contano troppo poco politicamente ed economicamente. In realtà, solo se il degrado socio-economico e lo spopolamento diventano una questione “regionale”, della Sardegna intera, c’è forse qualche speranza che la tendenza al peggio possa essere interrotta.

C’è una domanda che accompagna il cammino della Sardegna nel terzo millennio: che isola sarà fra cinquant’anni? Qualche risposta emerge da una analisi del più recente movimento demografico regionale: aumentano gli abitanti nelle grandi aree urbane e, sempre più rapidamente, si svuotano le zone interne. Negli ultimi lustri si sono dimezzati tantissimi paesi, la metà dei comuni ha meno di 2000 residenti, e tra i centri più piccoli uno su sette è considerato a rischio sopravvivenza. La tendenza allo spopolamento sembra inarrestabile. Nel Medioevo furono la peste e la malaria a modificare la geografia dell’isola. Di molti villaggi di allora restano soltanto il ricordo, qualche chiesa campestre, qualche sperduto toponimo. Strano destino quello dei piccoli comuni che, ora, si scontrano con la mancanza di posti di lavoro, di strade adeguate che consentano di raggiungere rapidamente la città, di prospettive. Diventa sempre più difficile il percorso amministrativo di chi assiste, quasi impotente, alla fuga dei suoi abitanti, e vede chiudere le scuole, gli uffici postali e disgregarsi il tessuto sociale della sua comunità, con i rioni sempre più vuoti. Molti paesi rischiano di scomparire nell’indifferenza generale.

Negli anni Settanta i problemi dell’industria di Ottana erano problemi di tutti i paesi della Sardegna centrale. Ora le rivendicazioni per difendere il posto di lavoro sembrano diventate un capriccio di qualche sindacalista locale. Non c’è la giusta tensione, manca completamente la mobilitazione, le grandi assemblee nelle piazze o nelle fabbriche sono un lontanissimo ricordo, avanza lo scoramento. In troppi paesi le comunità si comportano come gli ammalati nei racconti di Grazia Deledda: “Non si curano perché il destino è segnato”. Eppure anche i piccoli comuni possono essere protagonisti del proprio destino. “Noi” – ammoniva Salvatore Satta – “non possiamo essere semplici inquilini nelle nostra isola”, non si può vivere ai margini della storia. È vero: lo Stato deve dare risposte concrete, ma anche i piccoli comuni possono essere protagonisti della propria rinascita.

Gli esempi non mancano. Villanovaforru ha investito molto in cultura ed ha frenato lo spopolamento. Il Comune ha disegnato il proprio futuro recuperando la sua storia più antica. Attorno al nuraghe sono sorte iniziative che hanno rilanciato l’economia dell’intera comunità, inventando posti di lavoro inimmaginabili fino a qualche anno fa: e per questo sono state sfruttate leggi regionali, nazionali e comunitarie. Il Comune ha raccolto finanziamenti, che sono a disposizione di tutti, facendo proposte serie e poi coinvolgendo gli altri Comuni della zona. Il territorio non è un’entità astratta e non può essere una ragione di divisione campanilistica: uniti si diventa più forti, solo creando consorzi tra Comuni si può affrontare meglio la battaglia del futuro. Non è una battaglia di poco conto, ma i piccoli Comuni non debbono restare soli perché senza di essi non ci sarebbero solo mutamenti di tipo geografico, come è accaduto durante il Medioevo. Ora la perdita sarebbe ben più vasta perché stiamo parlando di comunità che, in qualche misura, sono le ultime sentinelle della nostra cultura millenaria che pure, almeno a parole, vogliamo difendere.

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