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Le donne che ci piacciono. Vanessa Roggeri: “Con le eroine dei miei romanzi voglio dire alle donne: pensate sempre con la vostra testa”

Scrittrice di successo ed editorialista per La Nuova Sardegna, Vanessa Roggeri è nata e cresciuta a Cagliari, dove si è laureata in Relazioni Internazionali. Volitiva, appassionata e determinata, nel 2013 ha visto decollare la sua carriera di autrice con la pubblicazione del suo primo romanzo “Il cuore selvatico del ginepro”, edito da Garzanti, seguito nel 2015 dalla pubblicazione del secondo “Fiore di fulmine”, sempre per Garzanti.

Nel 2018 ha dato alle stampe il terzo romanzo, stavolta edito da Rizzoli, “La cercatrice di corallo”. Il libro ha vinto nel 2019 il Premio nazionale di letteratura e giornalismo Alghero Donna.  

Oggi parliamo con lei di scrittura, di femminismo, di matriarcato, di donne sarde e Sardegna.

 

Hai iniziato ad amare le narrazioni molto presto, anche grazie – come spesso ricordi – ai racconti di tua nonna. Ricordi il momento in cui hai sentito la necessità di passare dal ruolo di ascoltatrice a quello di creatrice di storie?

Penso di essere sempre stata una creatrice di storie, anche quando ancora dovevo imparare a metterle su carta. Andando a ritroso con la memoria, mi rendo conto che narrare storie è sempre stata un’esigenza insopprimibile per me, costruire sotto varie forme un percorso che includesse un viaggio fisico e ideale dei miei personaggi, un viaggio che fosse acerba espressione di evoluzione. Già da bambina, con i giochi inventati con mia sorella, avevo la tendenza a intessere trame dotate di un inizio, uno sviluppo e un finale, animate da personaggi principali, comprimari e battute fatte con vocine differenti per ognuno di loro. Se non è la base della narrazione questa non so cos’altro possa esserlo.

Si può narrare in tanti modi, per molti anni è stato importante per me sfogare la creatività con il disegno, finché i libri durante l’adolescenza hanno preso definitivamente il sopravvento. In questo processo è stato fondamentale il racconto orale tipico della nostra tradizione sarda, ma anche gli audiolibri, perché l’ascolto è un’azione puramente passiva che lascia la fantasia libera di mettere in scena suggestioni molto coinvolgenti. 

Inizialmente il desiderio di “vivere” le mie storie (non solo quelle scritte da altri), il piacere inesauribile della scrittura, essere demiurgo di un piccolo mondo che esiste ex novo grazie alla mia immaginazione, avevano la forma della passione totalizzante, ma ben presto scrivere libri è diventato il mio progetto di vita. 

 

Nel tempo, sei stata sostenuta nel tuo percorso di scrittrice? Da chi?

Da mia madre, fin dal principio, sempre e comunque. Lo ha fatto quando stroncava (giustamente) i miei primi lavori, e continua a farlo oggi quando mi accompagna ovunque nelle mie peregrinazioni (fisiche e mentali) di scrittrice. Mi sostiene, è la prima che legge i miei libri, mi incoraggia nei momenti di sconforto, mi dà consigli e mi aiuta a superare i dubbi. È la mia prima fan, entusiasta sì ma sempre con misura: da lei non arriveranno mai elogi sperticati del tipo “sei la migliore!”, giusto per esaltare il mio ego di figlia. Concretezza e senso della realtà prima di tutto.

 

I personaggi femminili che fai vivere tra le pagine dei tuoi romanzi – seppur con le loro diversità – sono tutti molto volitivi. Tu in quale delle donne che hai descritto ti rispecchi maggiormente?  Quali sono i messaggi rivolti alle donne che più di tutti desideri veicolare con la scrittura?

Forse mi sento più vicina a Nora (protagonista del mio secondo romanzo “Fiore di fulmine”), alla sua schiettezza, ai suoi principi morali, al suo perenne cercare tra le ombre una verità più alta e segreta. Mi piace la sua originalità, la femminilità non scontata e la riservatezza rispetto al resto del mondo. Nora non si arrende mai, anche quando tutto sembra perduto. Attraverso il suo esempio letterario, e quello delle altre mie eroine, vorrei veicolare un messaggio molto semplice: pensate sempre con la vostra testa. Non è possibile emanciparsi, raggiungere l’autonomia (intellettiva, emotiva, economica) e portare avanti le proprie idee se non si sviluppa un pensiero critico personale. 

 

Ambienti le tue storie in Sardegna, un’isola piena di bellezza, di tradizioni, di fierezza. Ti ho sentita una volta definirti “una nuragica”. Anche la natura e la magia svolgono ruoli importanti nei tuoi libri, che hanno dei tratti dal sapore spesso ancestrale. In che misura, la tua terra è collegata ai personaggi e ne trasmette la forza? Perché la donna che descrivi è spesso legata alle caratteristiche associate alla coga? Siamo tutte un pochino streghe noi sarde?

Il collegamento è inscindibile: i miei protagonisti rappresentano sempre la personificazione dei luoghi in cui abitano, con le loro sfaccettature caratteriali esaltano la forza specifica assorbita attraverso le proprie radici. È in realtà un circolo virtuoso, un gioco di specchi voluto. Ogni elemento descritto deve avere un senso, i personaggi coronano di significato i luoghi con la propria presenza. Faccio un piccolo esempio: ne “La cercatrice di corallo”, la protagonista Regina è vera incarnazione del mare della Riviera del Corallo, la luminosità e il senso di apertura ma anche la mutevolezza degli umori e la profondità dei sentimenti paragonabile agli abissi marini; Dolores invece, sua antitesi, incarna la forza oscura della terra e dei territori del Meilogu ricchi di calcare e di grotte, la pesantezza materica della pietra che si fa carattere volitivo inscalfibile.

Noi sarde siamo tutte un po’ streghe? Una domanda apparentemente innocua che apre un capitolo a sé. Lo siamo perché ancora legate alla nostra istintività, a un sesto senso che attinge a saggezza innata, a un mondo atavico insito nel nostro DNA. Basta poco per risvegliare ciò che già fa parte di noi. Siamo un po’ streghe perché figlie della demonizzazione del principio femminile, così com’è avvenuto per la coga: in origine la sua essenza era tutt’altro che nera, è diventata figura negativa con l’avvento del cristianesimo sull’isola, tramutandosi col tempo in pretesto superstizioso posto a spiegazione delle morti bianche.

 

 

Quello del ruolo nella società della donna sarda è stato – ed è – un argomento molto discusso tra gli studiosi. Si parla spesso di matriarcato (a volte nella declinazione di matriarcato occulto) ma la reale posizione sociale di cui ha goduto nel passato la donna non è ancora perfettamente chiara. So che su questo argomento hai condotto delle tue personali ricerche. Ci aiuteresti a tratteggiare una panoramica della condizione della donna sarda dall’800 ad oggi?

Ho compreso che il matriarcato in Sardegna non è affatto una favola femminista per bambine moderne in cerca di riscatto ideologico. La donna sarda, o meglio “la padrona di casa”, ha sempre avuto un ruolo di regista occulta, di guida all’interno delle famiglie e delle piccole comunità. Lei era fulcro che accentrava gli umori e le azioni di chi le gravitava intorno, l’autorevolezza fatta carne, fonte di saggezza riconosciuta ai cui tutti tendevano. In casa era solita tenere i cordoni della borsa, anche perché nella struttura sociale sarda l’uomo, il lavoratore impegnato con il bestiame, colui che si esponeva pubblicamente, era spesso via per lunghi periodi; sulle spalle della matriarca ricadevano l’amministrazione della casa, dei denari, e la cura dei figli.

Durante una presentazione, trattando proprio questo argomento, una lettrice altoatesina presente nel pubblico mi testimoniò che dalle loro parti la struttura sociale è rovesciata: è il nonno a guidare la famiglia, lui è il “capo” che comanda su tutto, persino sui posti a tavola che i famigliari andranno a ricoprire. In ogni caso, matriarcato non significa avere libertà, né di azione né di espressione. Il rischio di condanna pubblica è sempre stato forte, se non si osservavano le regole imposte. La società sarda era rigida, le donne non potevano “ascendere”, né potevano prendere decisioni che compromettessero l’onorabilità propria e della famiglia. Una donna non si esponeva, né poteva avere un destino differente dall’essere moglie e madre. Purtroppo in quanto a questo tutto il mondo è paese.

 

Sei una delle autrici sarde più apprezzate e conosciute, anche a livello nazionale. Potremmo dire che tu sia un baluardo di sardità. Senti il peso di questa responsabilità? La Sardegna ti ha sostenuta in questo percorso?

La Sardegna mi ha dato tutto quello che poteva darmi, in termini di affetto e riconoscimenti. Quando ho iniziato a scrivere storie ambientate nell’Isola non avevo come obiettivo diventare un “baluardo di sardità”, non era nei miei pensieri, e mi accorgo solo ora che questo ruolo non puoi pretendertelo: deve esserti offerto spontaneamente, come naturale conseguenza di un consenso collettivo. Sentire la responsabilità non significa sbandierare campanilismo sfegatato, bensì avere obiettività nel trattare una materia complessa e profonda come l’essere sardo.

 

Le discriminazioni, molto spesso, passano per l’ambiente lavorativo. Nel tuo campo ti sei mai sentita messa da parte o presa meno sul serio in quanto donna?  Che reazioni hanno avuto donne e uomini ai tuoi romanzi? 

Non ci sono stati episodi eclatanti, più che altro ho avuto la percezione sgradevole che il mio essere donna, oltretutto giovane, screditasse la mia credibilità di autrice. Il pregiudizio nasce spontaneo – non c’è nulla da fare – in tutti gli ambienti non soltanto in quello editoriale.  La morale è sempre la stessa, ovvero che devi lavorare il doppio per dimostrare quanto vali. I lettori poi reagiscono da lettori: generalizzando, le donne sono più loquaci e desiderose di esprimere (e condividere) le emozioni provate durante la lettura, mentre gli uomini sono più pudichi, parlano più in termini intellettuali e meno dell’aspetto emotivo, anche se devo dire che non pochi mi hanno confessato di aver pianto per Ianetta.

 

 

Cosa significa essere femministi, secondo te? Quali sono le battaglie, oggi, da portare più che mai avanti? Quale stereotipo di genere proprio non riesci a tollerare?

 

Voglio citare una straordinaria Rebecca West, scrittrice inglese del secolo scorso considerata femminista: “Non ho mai capito cosa si intendesse esattamente per femminista. So solo che ho incontrato persone che mi hanno chiamata femminista ogni volta che esprimevo opinioni che mi distinguevano da uno zerbino”. Non è cambiato nulla, distinguersi da uno zerbino battendosi per le proprie idee – e perché quelle idee godano della medesima considerazione dedicata alle idee degli uomini – è sufficiente per essere considerata femminista.

Si battaglia su tante questioni che riportano sempre alla medesima pretesa di parità di genere, ma penso che il conflitto che contrappone il corpo femminile a talento e capacità sia dirimente, tasto dolente alla base di ogni pregiudizio che coinvolge le donne. Corpo mercificato, anche dalle stesse donne e non soltanto dalla società maschilista, corpo esposto e oggettificato in quanto arma sessuale necessaria per fare carriera: mi rifiuto di accettarlo. Il rifiuto non corrisponde alla negazione della femminilità, anzi, significa voler trovare altre vie d’espressione della suddetta femminilità, che coinvolgano la mente e lo spirito. Prima di essere marchiata da un’etichetta voglio essere considerata una persona, a prescindere dall’appartenenza di genere. Mi sale il sangue alla testa quando salta fuori il cliché “dell’angelo del focolare”, sottintendendo che le donne per natura debbano occuparsi solo di fornelli e pappe per bambini. Il pregiudizio persiste in molte menti nostalgiche. 

 

Molti scrittori non amano le presentazioni pubbliche dei loro libri. In più di un’occasione, dal vivo, ho potuto constatare che per te decisamente non è così. Ho avuto l’impressione che ti alimentassi dell’energia che scaturisce da certi incontri. Che relazione hai con i tuoi lettori? Come possono mettersi in contatto con te? C’è qualche aneddoto curioso che vuoi raccontarci avvenuto durante uno di questi incontri letterari?

Ciò che io dono con le mie storie mi viene restituito centuplicato quando incontro i lettori alle presentazioni o comunico con loro attraverso i social. È uno scambio di energia potente che mi ispira e mi spinge a fare sempre meglio. Per me rappresentano un motore motivazionale straordinario. Capita a volte che qualche lettore finisca nei miei libri, ad esempio Miracolina, sorella minore di Achille, è una lettrice conosciuta a Nuoro. Capita anche che la realtà superi la fantasia, come quella volta in cui mi scrisse una certa Ianetta.

 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Continuerai a scrivere di donne, ci sono altri romanzi nel cassetto? Ci sono progetti di traduzioni per l’estero?

In attesa della pubblicazione del mio quarto romanzo, sto lavorando a un nuovo progetto. Il mio sogno rimane sempre lo stesso: scrivere.

 

 

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