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Sconfigge un tumore al quarto stadio e si laurea. La storia di Anna Tognotti: “Vivo anche per chi non c’è più”

«Un medico mi disse una volta di vivere anche per coloro che non ce l’hanno fatta e ogni tanto, quando mi ricapita di ripensare a ciò che ho passato o quando ho momenti di sconforto, ripenso a questa frase e a tutto ciò che io e la mia famiglia abbiamo passato, così cerco di farlo ogni volta.»

Si dice che ognuno abbia la sua croce, ma che alcuni l’abbiano di legno e altri di ferro. E si dice anche che ci siano diversi modi per affrontare un percorso particolarmente duro: uno è farsi prendere dallo sconforto, l’altro è fare tesoro delle esperienze, delle lacrime e della sofferenza per diventare persone migliori, che brillano e che sanno dare luce anche alle altre. Ah, si dice persino che siano belle, ma proprio belle, quelle che sanno rinascere dal proprio dolore per sorridere con un’intensità maggiore.

La 27enne di Abbasanta Anna Tognotti è una di queste, piccola combattente che è diventata adulta. Con un pensiero a chi non c’è ma con lo sguardo rivolto al futuro.

Anna – sorella maggiore di due più piccole, con una mamma e un papà che l’hanno sostenuta sempre – ha un’infanzia serena, vissuta a divertirsi con sorelle e cugini.

«La mia casa si trova in un vicolo cieco e per noi bambini ha significato tanto perché potevamo giocare tranquilli “in piazza” senza nessun pericolo» racconta. «Abbiamo giocato a tutti i giochi possibili e rimanevamo fuori sino a che non ci chiamavano i nostri genitori per dirci che la cena era pronta. Ma anche con altri amici e parenti abbiamo condiviso quegli anni di meravigliosa spensieratezza.  È stata un’infanzia bellissima, non la cambierei con niente al mondo.»

E non solo: già alla scuola elementare e media inizia a conoscere e a stringere rapporto con le prime amiche, e alcune sono ancora pilastri della sua vita. Tutto procede senza intoppi: Anna è una ragazza felice.

Quando si iscrive al Liceo Classico De Castro a Oristano, svolge per tre anni una vita normale. Sì, ecco, non c’è nulla che possa far presagire quel che la ragazza di lì a poco si troverà ad affrontare.

Nulla… fino alla quarta liceo. È a questo punto che Anna inizia a soffrire di mal di testa, di capogiri, ma nessuno si allarma: il carico di studio, soprattutto in un liceo come quello a indirizzo classico, necessita di lunghe ore sui libri. Sarà la stanchezza, si dice, o il troppo leggere e ripetere. Quasi, sembra di vederla questa giovane donna mentre costruisce, tassello dopo tassello, il puzzle della sua vita studiando, intessendo relazioni sociali, ridendo e facendo della sua vita un capolavoro.

Ma poi, quando i malesseri non passano, be’, si pensa a qualcos’altro.

«Un giorno in particolare ricordo che, facendo delle capriole durante l’ora di ginnastica, caddi proprio perché mi venne capogiro durante l’esercizio. Da lì ho iniziato a fare diverse visite e i miei genitori mi prenotarono una risonanza magnetica, ma che avrei dovuto fare dopo mesi, visti i tempi.»

Ma il 21 luglio del 2014 accade qualcosa di terribile: la ragazzina entra in coma.

«La notte precedente non mi sentivo bene e ricordo che andai in camera e svegliai mia madre per il forte mal di testa, poi presi una tachipirina. L’ultimo ricordo che ho fu che mi buttai nel letto e mi riaddormentai, solo che questa volta non sapevo che non mi sarei risvegliata l’indomani.»

Anna viene portata subito all’ospedale San Francesco di Nuoro, le viene fatta una risonanza e viene operata d’urgenza a causa di un’emorragia cerebellare in corso. Poi viene messa in coma farmacologico per dieci giorni.

«Non si sapeva come mi sarei risvegliata, né quando: rimaneva solo la speranza.»

Ma il 31 luglio, per fortuna, si risveglia e non c’è nessun danno. Questo è solo l’inizio di tante visite.

«Purtroppo, nel punto in cui venni operata si era formato un edema che non permetteva di far vedere, attraverso le risonanze, cosa ci fosse dietro. Quindi passarono altri giorni. Dopo circa un mese, mentre l’edema iniziava a riassorbirsi, ripeterono una risonanza e scrissero una possibile diagnosi: “Medulloblastoma”.»

A dicembre, Anna viene sottoposta a un ulteriore intervento per rimuovere il tumore, che andò bene. L’istologico, tuttavia, conferma la diagnosi.

«I medici parlarono ai miei genitori, dissero loro che ci avrebbero messo in contatto con la responsabile dell’oncoematologia pediatrica del Microcitemico di Cagliari. Io ancora non sapevo niente di tutto ciò, capii qualcosa ma non realizzai effettivamente cosa avessi. D’altronde avevo solo diciotto anni. Quel periodo c’era una festa nel mio paese che dovevamo organizzare io e i miei coetanei del ‘96. Ero così contenta quei giorni che i miei genitori mi lasciarono tranquilla.»

Ma la festa termina e i genitori devono affrontare una sfida durissima: dire alla propria figlia quel che accade al suo corpo, dirle che dovrà combattere.

«Da lì mi crollò il mondo addosso. Non sapevo cosa fare. Pensavo: “Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?” Era tutto buio dentro la mia testa. Mai avrei pensato di sentire quel maledetto nome, “tumore”, nella mia vita.»

E il primo pensiero al suo arrivo al Microcitemico è proprio di voler andare via da lì. Anna vuole scappare da quel posto, non ci vuole stare nemmeno un minuto. Vuole tornare alla sua vita, alle amicizie, alla scuola. Nessuno dovrebbe avere questo macigno sulle spalle, tanto meno una diciottenne nel pieno della sua vita. Ma si fa coraggio.

«Salii al quarto piano con i miei genitori e lessi la scritta: Oncoematologia pediatrica. Non volevo attraversare quella porta, sapevo che avrei trovato un mondo diverso, un mondo che mi faceva paura. Mi sembrava di dover entrare n un girone dantesco dell’Inferno. Avevo il terrore di vedere bambini senza capelli ma mi feci coraggio, probabilmente era l’unica cosa da fare ed entrai. Vidi tante persone, infermieri, medici e tanti genitori con bambini che giravano con le flebo attaccate. In particolare vidi un medico cantare e passeggiare per l’andito con un camice tutto colorato e pensai: “Ma dove sono finita?” Tutto mi passò davanti in una frazione di qualche secondo perché subito dopo entrammo in questa stanza dove c’era la Responsabile e un’altra Dottoressa.»

Lì, le viene spiegato l’iter: «Avrei dovuto iniziare con la radioterapia che sarebbe durata un mese e mezzo e i cicli di chemioterapia da fare successivamente sarebbero stati otto in tutto. Tumore al quarto stadio, uno dei più aggressivi. Capii che non sarebbe stata una passeggiata ecco.»

Inizia, nel frattempo, anche la scuola: Anna è all’ultimo anno di liceo, quindi deve destreggiarsi tra studio e ospedale. «Ogni giorno dopo la scuola passava mia madre in macchina, mi portava il pranzo, mangiavo nei sedili di dietro e andavamo a Cagliari per fare la radioterapia. Incontrai tante persone gentili che mi facevano “stare bene”. Inizialmente non stavo male anche perché prendevo cortisone, quindi avevo anche molta fame, tant’è che ingrassai di qualche chilo. Finita la radio era arrivato il turno della chemio. Iniziai a conoscere le prime persone che facevano parte del mondo di OP (Oncologia pediatrica), tra cui Alessandro, un anno più piccolo di me. Avevamo lo stesso tipo di tumore. Lui mi dava molta carica e positività. Conobbi tanti dottori e dottoresse, infermieri e infermiere tutti molto bravi, gentili e sempre presenti e pronti a qualsiasi mia richiesta. Per me tutto questo mondo divenne la mia seconda famiglia.»

Ma soprattutto Anna conobbe quello che definisce oggi il suo secondo padre, il dottor Giulio Murgia: «Con la sua allegria, la sua bravura e con il sorriso sempre stampato sulle labbra mi diede la forza di non mollare. Uno dei suoi primi discorsi fu: “La vedi quella bandierina (immaginaria) in fondo al corridoio? Ecco tu devi arrivare a quella bandierina e quando sarai arrivata avrai finito e dirai: ‘Ce l’ho fatta!’”»

I primi cicli non la fanno stare così male, ma presto l’effetto dei farmaci si fa sentire forte e chiaro.

«I primi giorni di ogni ciclo non stavo proprio bene, mangiavo solamente mezza fetta biscottata al giorno e dimagrii tantissimo. Tant’è che successivamente finii in sedia a rotelle per un farmaco che non mi permetteva di stare in piedi e camminare. La mia speranza è stata sempre quella di farcela più che per me, per la mia famiglia. Fu proprio questo il maggior motivo che mi spronò ad andare avanti e che non mi fece arrendere. Ogni tanto pensavo: “Chissà se ce la faccio! Chissà se passerò questa giornata!” Però non avevo molte alternative, se non stringere i denti e andare avanti.»

Il sostegno e l’amore di tutta la sua famiglia è importantissimo in questo lungo e duro periodo della sua vita: «Mi hanno sempre fatta sentire una persona “normale”, mi hanno dato tutto ciò che potevano darmi. Quando venivo ricoverata per fare i cicli di chemio, c’era sempre mia madre che rimaneva a dormire con me all’ospedale mentre mio padre stava a casa con le mie due sorelle.»

Quando arriva il 12 aprile del 2016, ultimo giorno di chemioterapia, Anna lo sa: ce l’ha fatta, ha sconfitto quel brutto male. E pensa alle parole del dottor Giulio, quelle con cui l’aveva spronata all’inizio dell’incubo.

«Mentre terminavo l’ultima sacca, ero sdraiata nel letto e guardavo fuori dalla finestra e pensavo: “Hai visto, Anna? Sei arrivata alla bandierina, hai finito, ce l’hai fatta”. Dopo l’ultima goccia feci un sospiro di sollievo e iniziai a piangere, piangere tanto. Forse potevo tornare a fare una vita normale.»

Passano i mesi e Anna torna spesso in ospedale: i controlli da fare sono mensili. Inizia anche a iniziare nuovamente a camminare grazie alla fisioterapia e la nutrizionista la aiuta a prendere peso. In più, va in palestra.

«Iniziai a riprendermi la mia vita. Questo è stato un percorso difficile per alcuni punti di vista ma anche un percorso di crescita. Un medico mi disse una volta di vivere anche per coloro che non ce l’hanno fatta e ogni tanto quando mi ricapita di ripensare a ciò che ho passato o quando ho momenti di sconforto ripenso a questa frase e a tutto ciò che io e la mia famiglia abbiamo passato, così cerco di farlo ogni volta. Tante persone mi dicono che sono stata forte, io in realtà ho sempre fatto quello che mi hanno detto di fare e ho cercato, anche grazie a tutto ciò che mi circondava, di pensare sempre positivo e che, piano piano, ce l’avrei fatta.»

E l’ultimo anno di terapie si iscrive all’università: Scienze della Comunicazione. La laurea arriva nel 2021.

«Il percorso di laurea inizialmente non è stato semplicissimo poiché dovevo riiniziare a studiare per diverse ore e tenere la concentrazione, spesso mi ritornava un po’ di mal di testa e quindi interrompevo. Sono molto orgogliosa di me e di quello che sono riuscita a portare a termine.»

In particolare, è fiera di sé quando discute la tesi: “Un’esperienza vissuta in Oncoematologia pediatrica”.

«Ho toccato alcuni punti come, per esempio, il rapporto medico-paziente o anche il mio rapporto con gli altri pazienti, il tutto legato quindi alla componente comunicativa. Ho scelto di affrontare queste tematiche e di raccontare in breve la mia storia proprio per spiegare quanto sia importante la comunicazione e lo star bene con le persone durante un percorso terapeutico e per dare, spero a qualcuno, con le mie parole, la forza di non perdere mai la speranza. Dopo aver trascorso tanto tempo in ospedale ho capito quanto mi piacessero i bambini e quanto sia importante aiutare le persone che si trovano in difficoltà, infatti, ad oggi sto studiando anche Scienze dell’Educazione e Formazione. Sono grata di questa mia seconda possibilità di vita. Mi auguro di non sprecarla mai e di provare a viverla, seppur con i miei tempi, al massimo.»

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