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Guarisce dalla leucemia e diventa un artista. Alessandro Loddo: «Ho trovato la forza nell’arte»

“Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare qualcosa che importi rischio o sacrificio”: ecco cosa si trova se si cerca nella Treccani la definizione di “coraggio”.

Ed è proprio così, ma anche di più. Coraggioso è un bambino che si sente dare una diagnosi infausta e combatte, con le unghie e con i denti, nonostante la leucemia che non lascia la presa, nonostante i disagi fisici, nonostante la stanchezza e la vitalità che pare sparire come inghiottita da un buco nero. È un bambino che diventa ragazzo e non perde la voglia di vivere, di provare a colorare d’arte il proprio mondo. È un piccolo artista che diventa un grande artista e che, guarito dalla malattia, ha ancora un lungo percorso dinanzi a sé per lavare l’anima da tutte le sofferenze. È un uomo che ha una sensibilità particolare, speciale, e che vede oltre.

«C’è chi attraverso il dolore è riuscito a trovare o a rafforzare la propria fede e l’amore verso Dio, e chi invece l’ha perduta a causa di esso. Io ho trovato la forza nell’arte. Un’ossessione che ha tenuto impegnata e viva la mia mente, che era ed è in costante produzione di qualcosa, forse di infiniti desideri.»

Alessandro Loddo, artista cagliaritano, ha raccontato il suo percorso, quel che l’ha reso l’uomo che è adesso… Il suo calvario dato dalla leucemia linfoblastica acuta ma non solo: l’ormai 27enne racconta di sogni, di momenti di speranza e di bellezza del mondo, quella che nasce dalla solidarietà.

 

Ma torniamo indietro nel tempo di quasi due decenni.

«Fino a quel periodo sono sempre stato un bambino energico e vitale; non mi stancavo mai, pur dormendo e mangiando relativamente poco come tanti altri. Non mi ammalavo letteralmente mai, mi assentavo poco da scuola. Non prendevo mai medicine. Amavo andare al mare. Mi piaceva la bicicletta. Ero anche abbastanza bravino considerando che a 5 – 6 anni usavo anche quelle degli adulti. E ovviamente mi piaceva disegnare. Una passione nata chissà quando… Sono sempre stato timido e tendenzialmente introverso. E lo sono tutt’oggi. Anche se a fatica sto cercando aprirmi un po’ di più con gli altri.»

Ma è nel dicembre del 2003 che qualcosa va storto.

«Poco per volta, sentivo che le energie mi stavano abbandonando. A scuola avevo sempre più difficolta a concentrarmi. A mensa non toccavo praticamente cibo; a casa mangiavo sempre di meno, dormivo sempre di più, e quando giocavo con i miei cugini o amici mi stancavo troppo rapidamente rispetto a loro. Più il tempo passava, più questi sintomi peggioravano. Incominciai ad avere episodi di epistassi, e dei lividi chiari (le cosiddette petecchie) iniziarono a presentarsi rapidamente soprattutto nelle gambe in quantità spropositata. Il sistema immunitario stava collassando, di quel bambino sorridente, costantemente attivo che non si ammalava mai, iniziava a non rimaneva quasi nulla.»

È quando sviene sotto casa, qualche mese dopo, che vengono fatte delle analisi di controllo. Il 15 marzo 2004 la mamma di Alessandro riceve una chiamata: i due si recano d’urgenza al Microcitemico.

«Il Day Hospital dell’Oncematologia pediatrica era vuota. Quella mattina c’eravamo solo io e mia madre. Ci accolse un medico, Dottor Giulio, che premurosamente ci chiese di seguirlo in un’altra stanza in fondo al brevissimo corridoio del reparto, la medicheria. All’interno c’erano altre due persone: Gianfranco, un operatore socio sanitario, e Roberta, un’infermiera. Accadde tutto rapidamente. Mi fecero sedere nel lettino in posizione indiana, poi, per quanto delicatamente si potesse fare, fui bloccato ed immobilizzato da loro due. Il capo e il mio tronco erano piegati in avanti; il mio sguardo rivolto in basso, verso le mie gambe incrociate. Mia madre, che vedevo leggermente distante da uno spiraglio, mi teneva la mano. Non chiesi nulla, rimasi in silenzio, con la testa e il cuore pressati, e gli occhi pulsanti intrisi d’angoscia spalancati verso me stesso. All’improvviso sentii una violentissima pressione nell’osso sacro, acuta e costante, di indescrivibile intensità. Urlai di dolore, ma mi trattenni dal piangere, forse per vergogna, non lo so.»

Dopo tutti quei mesi di debolezza, il corpo di Alessandro cede e il bimbo collassa. Viene ricoverato al quinto piano.

«Ho vaghi ricordi del primo periodo, forse ricostruiti falsamente dalla mia mente. Dottor Giulio e Dottor Antonio mi spiegarono che avevo la leucemia, una malattia che colpiva il midollo osseo che produceva le cellule, che erano come tanti soldatini che proteggevano il mio corpo e sconfiggevano le malattie. Mi dissero che con la mia collaborazione e il loro supporto, e con le terapie che mi avrebbero somministrato, sarei guarito. In quella prima degenza conobbi A., una ragazza poco più grande di me. Io avrei compiuto 9 anni dopo tre mesi, lei invece avrebbe dovuto avere circo 12 anni. Facemmo subito amicizia. Ci vedevamo ogni giorno. Entrava sempre lei nella mia stanza. Parlavamo e giocavamo sempre insieme. Negli anni successivi continuammo ad incontrarci nel reparto e nel day hospital.»

Ma A., diversi anni dopo, non ce la fa. «La vidi qualche settimana prima, poi lo venni a sapere…»

Qualche giorno dopo il suo primo ricovero, le maestre del piccolo Alessandro – Aldina e Silvia –, che mostrava sin da sempre una propensione al disegno e all’arte in generale, arrivano con un dono che gli cambia la vita e che ancora possiede: un libro sulla vita di Leonardo Da Vinci.

«Già da prima di ammalarmi possedevo la passione per il disegno. Disegnavo costantemente; in ristorante, a cena dai parenti, a casa o scuola. In quell’istante, grazie anche a quel libro, tutte le mie forze, i miei interessi e i miei pensieri virarono sull’arte. Assurdo come un solo oggetto possa cambiare la vita di una persona. Il primo disegno che feci da ricoverato fu il ritratto di un cane di profilo, con il muso rabbioso, intriso di sangue. In quel foglio probabilmente rappresentai inconsciamente la rabbia repressa accumulata nelle giornate precedente.»

Il ricovero dura un mese esatto, dal 15 marzo al 15 aprile. Il rientro a casa porta anche i terribili effetti della terapia. «In poche settimane persi tutti i capelli, mi gonfiai in modo spropositato, mangiavo come un forsennato. Il ritmo sonno-veglia venne alterato profondamente, e ciò arreco un pesante mutamento dell’umore, una forte insonnia e iperattività. Tutto questo per un anno, periodo totale della terapia (compresi cicli di chemioterapia, trasfusioni di sangue e piastrine, decine di ricoveri, infezioni ecc) che poi fu seguito dal periodo di mantenimento.»

Non sembrano comunque esserci intoppi e Alessandro fa persino il suo primo viaggio in aereo senza genitori: viaggia con gli amici e gli insegnanti per mezza Toscana e si sente felice. Inoltre, manca veramente poco per l’ultimo aspirato midollare che confermi la guarigione effettiva. «Successivamente sarei andato fuori terapia e avrei eseguito dei controlli periodici programmati sempre più rari per i successivi cinque anni, per poi essere seguito una sola volta all’anno in regime di follow up, salvo complicazioni.»

La salute sembra perfetta, il Natale è alle porte così come la recita di fine anno ma, be’, purtroppo la vita mette di nuovo i bastoni tra le ruote. Alcune analisi risultano irregolari. «La mattina stessa, Dottor Giulio ci chiese di seguirlo perché doveva parlarci, spiegandoci che l’aspirato midollare sarebbe stato anticipato di un paio di mesi, al giorno seguente, l’indomani: c’era la possibilità che la leucemia si fosse infiltrata nuovamente nel midollo.»

La mattina seguente, Alessandro entra in sala prelievi ma l’ansia e l’angoscia hanno il sopravvento. «Improvvisamente, mi rifiutai. No, non volevo fare quel maledetto prelievo; non volevo sapere più niente, non volevo conoscere la risposta, ma fui trattenuto fisicamente da alcune persone e obbligato a sottostare al dolore… L’unica cosa che ricordo di quel momento è il grido impregnato da un pianto incessante, generato dal terrore di apprendere il futuro che ormai sentivo già scritto.»

Passa un mese quasi per l’esito e, nonostante le preghiere, la diagnosi è nuovamente infausta: «La leucemia era tornata. Non ricordo quasi nulla della mattina dopo in cui tornammo per il primo ricovero post recidiva. Ho un vuoto di memoria dal mattino precedente in cui persi il senno dalla rabbia. Mi spiegarono il programma terapeutico che avrei dovuto affrontare. In sintesi era quello che già avevo eseguito in precedenza, ma con terapie più massicce e debilitanti, che poi mi avrebbero consentito di effettuare il trapianto di midollo. Nel contempo, nei mesi a seguire avrebbero cercato un donatore compatibile che successivamente mi avrebbe donato il midollo osseo. Donatore che poi divenne mia zia Gabriella.»

Diventa passivo, è senza forze dalla battaglia combattuta e non ancora vinta.

«Sdraiato sul letto, osservavo con gli occhi fissi i muri della mia stanza. Rianalizzavo costantemente la mia breve vita, per poter dare un senso a quel che era successo. Arrivai perfino a pensare che fosse colpa mia, e che addirittura forse me lo meritassi: meritavo, secondo me, tutta la sofferenza che la vita mi aveva e mi avrebbe riservato. Crescendo, e parallelamente riflettendo concretamente, con il tempo, compresi che non esisteva e non esiste una motivazione tangibile moralmente accettabile per il quale tali circostanze accadono. Compresi semplicemente che la natura ci riserva una serie di coincidenze infauste che si manifestano attraverso il principio di causalità, e se vogliamo sopravvivere dobbiamo accettarle e conviverci.»

Il trapianto viene fissato per il 25 luglio. «Poche settimane prima l’Italia vinceva i mondiali del 2006» ricorda l’artista. «Ero fisicamente esausto, avevo completato da un po’ di tempo gli ultimi cicli di chemioterapia, quelli che precedevano la radioterapia che avrei eseguito a Genova. Non avevo più le forze di fare le scale, eppure di quel giorno non ricordo alcun tipo di malessere. Potrei azzardare un sentore di serenità, seppure mischiato all’ansia e alla tensione. Pochi giorni prima di partire, insieme a mia madre, mia zia e mia cugina, andammo alle giostre. Fu l’ultima serata fuori casa prima del viaggio. Avevo appena compiuto 11 anni.»

Dopo la radioterapia al Gaslini, le forze sono a zero: Alessandro non può nemmeno addentare una fetta di pizza, né gustarne il sapore. È consumato.

«Fortunatamente c’era la Dottoressa Adele Sanna ad aspettarci in aeroporto, perché durante il volo di rientro, quando stavamo per atterrare, stetti nuovamente male. Tramite un viaggio già programmato in precedenza, fui trasportato in ambulanza direttamente al Centro Trapianti del Microcitemico. A notte fonda. Nei giorni successivi seguirono ulteriori terapie per preparare il mio organismo a ricevere il midollo, intervallate da giornate di riposo. Il trapianto era stato fissato per il 25 luglio 2006. Poi venne spostato al mercoledì 26 luglio, alle ore 9 del mattino circa.»

L’ansia è infinita, ma sente anche un pizzico di felicità: forse la libertà è a portata di mano e questo è l’ultimo step. Quasi, se lo sente.

«I medici e le infermiere arrivarono con un’enorme sacca che conteneva le cellule staminali emopoietiche (il midollo) prelevate da mia zia Gabriella. Nelle ore che intercorsero durante l’infusione, le feci un disegno che poi le consegnarono. Rappresentai ciò che speravo e desideravo mi riservasse il futuro, e questo futuro se vi fosse stato, sarebbe esistito anche e soprattutto grazie a lei.»

Dopo dieci ore, l’intervento termina. Ora c’è solo da attendere dalle 24 alle 48 ore per sapere se tutto fosse andato come da manuale.

«Il midollo aveva attecchito. Fin troppo, forse. Al diciottesimo giorno si manifestò la GVHD (Graft Versus Host Disease o Malattia del trapianto contro l’ospite), una condizione acuta in cui le cellule del midollo trapiantato (Graft) che aggrediscono l’organismo del paziente (Host) riconosciuto come estraneo.»

Questa malattia compromette ogni organo del suo corpo. «Incominciarono a staccarsi tutte le unghie. L’epidermide iniziò a disgregarsi come in un’ustione nata dall’interno, la mucosite e le ulcere che ricoprivano la cavita orale non mi permettevano nemmeno di ingoiare la mia stessa saliva, né tanto meno di aprire la bocca per mangiare. Probabilmente arrivai a pesare circa 20 kg. Ero irriconoscibile: un agglomerato di ossa e pelle sgretolata, riempito dal solo gonfiore dei medicinali. Vedendomi allo specchio compresi che il percorso sarebbe stato molto lungo e tortuoso.»

Dopo due mesi e mezzo di camera sterile, finalmente, Alessandro può uscire alla luce del sole.

«Dopo che finalmente uscii dall’ospedale, in quel momento, lentamente, chiusi gli occhi… e respirai profondamente… Dopo tanto tempo il mio corpo si distese. L’aria tiepida del mattino sfioro la mia pelle dolorante e ipersensibile, e la presenza della luce del sole, che quasi riuscivo a toccare con il palmo delle mie mani, mi creava un lieve benessere. Poi, profumi. Avevo la mascherina, sì, ma, impercettibilmente, mi parve di sentire un altro bellissimo profumo, indefinibile, ma quasi palpabile: il profumo della libertà. Poco dopo il rientro a casa, mi sedetti nel divano, ed arrivò il mio cane, Balto, che, come se avesse compreso la mia sofferenza e che non potesse saltarmi addosso, quietamente si appoggiò con le sue zampe anteriori alle mie gambe, e con il corpo lontano e disteso rimase vicino a me, per tutto il giorno… era l’inizio di qualcosa, di una lentissima rinascita.»

Gli anni che vengono sono complicati. «La GVHD aveva compromesso la funzionalità intestinale, pertanto ogni paio di settimane od ogni paio di mesi dovevo essere ricoverato per essere nutrito artificialmente. Persi il primo anno delle Scuole medie date le continue assenze causate dalle degenze. Il secondo e il terzo invece riuscii a concluderli con grande fatica. Nel 2010 riuscii ad iscrivermi al Liceo Artistico di Cagliari. In questo ulteriore percorso che non fu esente da problemi di salute e ulteriori ricoveri, sviluppai un forte interesse per l’Arte Figurativa, indirizzo formativo con cui mi diplomai nel 2015, prediligendo la grafite e la tecnica della pittura ad olio.»

È nel 2017, tra una crisi depressiva e l’altra, come racconta, che conosce Francesca Ziccheddu, Presidente dell’ASGOP.

«Mi propose un progetto, denominato poi “Un Ritratto per la Vita”, che mi dava la facoltà, attraverso l’aiuto del direttivo dell’associazione, di realizzare i ritratti dei pazienti in terapia nel reparto dell’Oncoematologia Pediatrica del Microcitemico. Ritratti che sarebbero stati donati ai bambini e adolescenti, e alle loro famiglie, e che successivamente avrebbero potuto essere esposti in una mostra, con l’obiettivo prefissato di far conoscere e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lungo percorso che famiglie e pazienti devono affrontare durante gli anni di terapia contro il cancro. All’inizio pensai che fosse qualcosa di troppo grande per me, che non ce l’avrei fatta. Invece poi, quasi impulsivamente, accettai e mi misi all’opera.»

Nel progetto iniziale, venti quadri diventati poi quaranta per la disponibilità di genitori e ragazzi: inizia così un anno e mezzo di lavoro per completare tutte le richieste.

«Per ogni opera decidemmo che vi sarebbe stata una dedica, un pensiero od una frase scritta dai piccoli, dai ragazzi, o dalle famiglie in ricordo del/la propriə figliə, fratello o sorella. Senza questi la mostra forse sarebbe stata vuotata del proprio senso e della propria potenza comunicativa. Il mio compito era “soltanto” quello di rappresentare la la vita, non la malattia…»

Uno in particolare gli è rimasto scolpito nell’anima.

«Tra i tanti ritratti che ho eseguito e poi consegnato insieme alle mamme dell’ASGOP, ve ne fu uno in particolare che dopo anni e rimasto impresso più profondamente nel mio cuore, e che ancora mi emoziona ricordare. Dovevamo andare da una ragazza in terapia. Era una giornata buia, fredda. Pioveva. Non era al Microcitemico ma al Businco per effettuare una procedura diagnostica. Ovviamente non sapeva nulla. Andammo a trovarla prima che iniziasse. Preferisco non scendere nei particolari, ma lei non stava bene, per niente. Riconobbi tutto dagli occhi, che avevo finito di ritrarre pochi giorni prima, e a cui avevo cercato di alleggerirne lo sguardo carico di dolore. Quando la mamma scartò l’imballo e vide il suo viso ritratto vicino al suo cagnolino, sorrise. Fu un sorriso di pochissimi secondi, forse tre, ma sorrise. E anche i suoi occhi per un istante mi parvero illuminarsi, in una giornata buia, piovosa, e fredda» continua. «Non la rividi più. In quel momento mi resi conto che stavamo creando qualcosa di molto importante, non consegnando un semplice dono. Non so di preciso cosa fosse, ma percepivo una sorta di energia che oggi non so ancora spiegare.»

L’esposizione va alla grande. Centinaia di persone si riversano a vedere le opere di Loddo, tanti si lasciano andare alla commozione e piangono. «Purtroppo io no, anche se avrei voluto. Ma ero davvero distrutto, fisicamente ed emotivamente. La notte della Prima mi venne la febbre alta. Forse causata dalla tensione e dalla stanchezza di quei mesi. Fu un anno pesante per chi conosce il reparto. Ma oltre al dolore, non posso che ringraziare ogni giorno me stesso per aver accettato quella mano offertami da Francesca, e di essere stato presente ad ogni abbraccio e ogni lacrima ed emozione che quei ritratti hanno dato a tutti.»

Nell’arte, Alessandro Loddo, ha ritrovato se stesso.

«Per me l’arte e amara, l’arte e amarezza; l’arte e assecondare la propria pazzia; e ambizione, E nutrimento per la propria anima e corrosione della stessa. Come la lava sgorga dal cratere del vulcano, ogni idea che erompe dal tormento delle nostre menti deliranti, scaturisce dal bisogno disperato di dare origine ad una creatura, che diventi poi immutabile. Eterna. L’arte genera silenzio. Quando dipingo, i miei sensi sono tutti concentrati sul pennello e sul pigmento. Non esiste lo scorrere del tempo, non esiste fatica, dolore, calore, freddo, fame o sete. Ho scoperto che questa percezione che ognuno di noi ha provato almeno una volta nella vita viene definita ipofrontalità transitoria, o semplicemente FLOW (Fluire o Stato di flusso). Uno dei miei obiettivi futuri a breve termine sarà quello di controllare a mio piacimento questo stato di coscienza. A lungo termine continuerò a studiare, a dipingere, a creare. Ho qualche idea in testa in fase embrionale, che spero un giorno di portare alla luce. Magari sulla scia del Progetto a cui abbiamo dato forma completa nel 2018. Continuerò a curarmi, perché dopo quasi 19 anni, pur essendo guarito dal cancro, il mio fisico e la mia mente non lo sono affatto.»

«Molte persone associano la guarigione dal cancro alla guarigione completa del paziente. Purtroppo non è così. Noi “guariti” sopravviviamo all’interno di una specie di limbo, tra i danni provocati dai farmaci e le malattie scaturite dalle terapie effettuate per i tumori, all’inefficiente se non totale mancanza di un programma terapeutico preposto per la nostra salute. Oggi parliamo giustamente tantissimo di Long Covid, di fatica cronica, di nebbia mentale, di dolori fisici ed emotivi provocati dalla pandemia, ed è un bene. Ma probabilmente quasi nessuno sa che tante di queste condizioni, anche peggiori se non invalidanti ad essere sincero, qualcuno, o forse tanti di noi “ex” pazienti oncologici le viviamo ogni giorno da quando ci è stata consegnata la diagnosi, e da quando siamo stati considerati guariti/sani/in salute dai medici e dalla ricerca. Ci si concentra quasi solo ed esclusivamente sulla malattia primaria e sulla sua cura, cosa giusta, ma quasi mai sui danni provocati da essa, e gli effetti che questa procura sulla qualità della vita delle persone. Sulla qualità del loro-nostro futuro. Noi pazienti non siamo solo pazienti, siamo Persone, tutte con bisogni diversi l’uno dall’altro, ma con un desiderio unico che credo unisca tutti: avere una prospettiva di vita appagante, e un futuro degno di questa esistenza.»

«Un giorno vorrei smettere di essere un sopravvissuto. Ricordiamoci di curare anche le persone, non solo le malattie» chiude. «Consiglio, anzi, spingo tutte le persone, ragazzi e ragazze, uomini e donne, che si trovano in un contesto di salute compromesso, che non si sentono capiti o si sentono soli, a PARLARE, anche pubblicamente, di fare sentire la propria voce, le nostre voci. Non abbiate vergogna di parlare delle vostre malattie, né della personale condizione di salute che per tanti risulta invisibile.»

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