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Cagliari Calcio, resta l’amarezza per la B ma bisogna ripartire: “Ovunque tu sarai io ti seguirò”

Il Cagliari avrebbe potuto risorgere dalle sue ceneri e cambiare nell’ultima notte le sorti di un destino già scritto. E anche la fortuna sembrava volesse dare l’ultima chance agli uomini di Agostini: alla fine del primo tempo la Salernitana, sostenuta dai tifosi che hanno invaso l’Arechi, era sotto di tre gol contro un’Udinese non ancora troppo stanca e molto affamata. Sarebbe bastato un gol, uno solo, al Luigi Penzo per salvare la categoria.

Anche il Venezia ci ha messo del suo, ma l’ultima occasione per restare sul palco più alto del calcio italiano il Cagliari l’ha sprecata. E così fa davvero tanto male.

A nulla è servito il sostegno, la grinta e l’entusiasmo degli oltre settecento tifosi arrivati dalla Sardegna e dalle altre regioni al grido “Dai Casteddu facci un gol”. Quegli stessi tifosi che non hanno perso una partita in casa e soprattutto in trasferta. Sempre e comunque.

Davanti alle sconfitte, alle tante partite storte, loro ci sono sempre stati. Come domenica sera al Penzo. Un’onda di entusiasmo capace di sovrastare con la sua energia il tifo del pubblico casalingo.  I volti sono sempre gli stessi, quelli di
chi “che si perda o che si vinca noi saremo sempre con te”. Le bandiere dei Quattro Mori, quella degli Scolvolts, le tante sciarpe rossoblù, hanno sventolato dal primo al novantaseiesimo minuto. Senza fermarsi un attimo. Mai.

I canti, gli applausi continui, non un minuto per riprendere fiato. Non c’era tempo: la squadra aveva bisogno dei suoi tifosi e loro c’erano. Ci sono sempre stati. Ovunque. La squadra, invece? Non pervenuta, ancora una volta. L’ennesima, la più importante. Vince chi segna e il Cagliari non lo ha fatto. Se un qualsiasi spettatore avesse visto giocare i rossoblù per la prima volta avrebbe davvero pensato che volessero a tutti costi finire nella serie cadetta. Sono mancati ancora cuore, orgoglio,
identità: elementi fondamentali per chi indossa questa maglia.

E a nulla sono servite le lacrime sotto una curva delusa e arrabbiata alla fine della gara con il capitano, Joao Pedro, in quarta fila e sguardo basso, quasi a volersi nascondere per non essere stato in grado di caricarsi sulle spalle i compagni. È stato Pavoletti a trascinarli sotto la curva. Dietro di lui Cragno e a seguire tutti gli altri. In silenzio. Un silenzio assordante, perché per loro a parlare è stato il campo. Non ci sono più scuse o giustificazione, ieri la parola d’ordine era solo una: “Vincere”.

Eppure la partita non è altro che il quadro dove è stata dipinta la stagione disastrosa di un Cagliari che è stato in grado di regalare poche, pochissime, emozioni ai propri tifosi. Di cogliere gli stimoli che gli stessi con il loro instancabile tifo, partita dopo partita, hanno cercato di dargli.

I rossoblù sono abituati a soffrire per quei colori ben stampati nel petto, ma una retrocessione così “umiliante” è davvero dura da digerire. È una botta che brucia tanto. Il carro è rimasto vuoto. Piazza Yenne non è stata inondata di persone speranzose di festeggiare una salvezza all’ultimo respiro.

Anche il deserto dell’aeroporto al rientro della squadra in Sardegna, non è altro che l’immagine di una tifoseria, di una città, di un popolo e di una terra delusa, che sceglie la via del silenzio per dimostrare tutta la sua amarezza e il distacco da chi, in questi, mesi ha indossato il rosso e il blu senza realmente sentirsene parte. I giocatori vanno e vengono, le proprietà cambiano, i dirigenti sono di passaggio, ma l’amore per quei colori è più forte: esiste e persiste indipendentemente da tutto e da tutti, perché “ovunque tu sarai io ti seguirò”.

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