Site icon cagliari.vistanet.it

Sa die de Sa Sardigna, il giorno in cui i nostri avi si stancarono di sopportare. E oggi?

La bandiera della Sardegna.

“Sa die de sa Sardigna”, ovvero la festa della nazione sarda. Il 28 aprile 1794, in un contesto continentale di rivoluzioni e moti, anche l’isola ebbe i suoi “vespri”. È un avvenimento storico che rappresenta al meglio il carattere del popolo sardo. Non siamo come i corsi o i baschi. O come i catalani e gli scozzesi. Non siamo né rivoluzionari, né bravi a batter cassa. Siamo gente mite, poco incline al concetto di comunità e spesso, nella storia, fedele ai padroni. Due cose però non ci sono mai mancate: l’orgoglio e la dignità. In quella primavera sarda di oltre 200 anni fa i cagliaritani si ribellarono ai Sabaudi perché si sentirono traditi.

L’anno prima i sardi avevano resistito strenuamente a un tentativo di invasione francese facendo gli interessi dei piemontesi. Si aspettavano riconoscenza e meriti, ma soprattutto la possibilità di essere premiati con una maggiore rappresentanza nelle istituzioni locali. Invece nella testa dei Savoia – probabilmente – la Sardegna restava nient’altro che una colonia, buona per grano, legna e carne da cannone. C’è un proverbio sardo che dice “Su burriccu sardu du frigasa una otta scetti”, l’asino sardo lo freghi una volta sola. Mai come quella volte emerse chiaro il carattere del popolo sardo: leale, onesto, umile, ma mai disposto ad accettare i raggiri e le ingiustizie.

Quello che bisognerebbe ricordare di questa festa è che un tempo i nostri antenati erano capaci di farsi valere e di non chinare sempre il capo davanti al “padrone” di turno. Oggi parlare di “padroni” suona un po’ arcaico. Eppure ci piace ancora svendere pezzetti di noi al primo miliardario che capita a giro. Per poche briciole, sufficienti a chi le riceve per farsi i comodi suoi. Le mafie che vengono a ripulire denaro sporco nell’isola, imprese arrangiate alla bene e meglio che si arricchiscono con il nostro vento e il nostro sole approfittando della povertà di persone poco istruite, industrie che talune volte, più che creare lavoro, intossicano e ammalano i nostri corpi e le nostre menti da decenni in cambio di qualche busta paga, eserciti di mezzo mondo che vengono a sparare sulle nostre dune di sabbia, fabbriche di bombe straniere da utilizzare in guerre lontane. E i giovani con il trolley sempre pronto accanto al letto.

In trent’anni, su quest’isola scolpita da qualche Dio piuttosto bravo, saremo sì e no un milione. Quasi 25mila km quadrati di terre e pascoli fertili, spiagge e paesaggi mozzafiato che incantano i turisti non bastano a sfamare 1,6 milioni di persone, la metà degli abitanti di Roma. E non è più colpa degli altri, è bene dircelo, ormai è solo colpa nostra. C’è poco da stare allegri e c’è tanto bisogno di ricordare quella mattina del 28 aprile di 222 anni fa, quando ci stancammo di sopportare.

Exit mobile version