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Il Covid-19, la quarantena e la fase di ripresa: la parola alla psicologa Paola Ferreli

L’emergenza sanitaria è ancora in atto, non possiamo dirci del tutto salvi, per ora, ma l’annuncio della quarantena sembra ormai un cattivo sogno. Mesi trascorsi a riadattarci a ritmi che non conoscevamo, a gestire ansie e timori, a vedere il mondo che sembrava crollare: il 2020 ci ha riservato una sorpresa amara.

Noi di Vistanet abbiamo parlato, toccando argomenti spinosi, con la psicologa e psicoterapeuta ogliastrina Paola Ferreli di questo periodo anomalo, di cosa lascerà e di quanta forza è servita per affrontarlo.

 

 

Covid-19, da un giorno all’altro esplode l’allarme. La paura si diffonde, i notiziari non parlano d’altro, su qualunque canale devastazione, morti, numeri, contagi. Da psicologa e psicoterapeuta, come ha preso questa notizia? Insomma, da professionista della mente quali sono stati i suoi primi pensieri, le prime preoccupazioni?

All’inizio, come persona più che come professionista, ho preso la cosa sottogamba, lo ammetto, come molti di noi. A febbraio si parlava di questo virus ma sembrava una cosa molto lontana dall’Italia, dalla Sardegna… inizialmente quindi non c’era molta preoccupazione. Ho avuto la reale percezione del pericolo la sera del 4 marzo, quando da un giorno all’altro il governo ha deciso di chiudere le scuole per 15 giorni… lì ho pensato che stesse succedendo qualcosa di veramente importante, e che dovevo alzare il livello di allerta… quindi, come psicologa e psicoterapeuta, non più solo come persona, il primo pensiero è stato la “psicosi da panico” che si verifica ogni qual volta accade un evento grave di portata mondiale. Mi vengono in mente due episodi come esempio: 10 gennaio 1990, guerra dl Golfo, e 11 settembre 2001, crollo delle Torri Gemelle. In quelle occasioni, come oggi, vennero presi d’assalto i supermercati e le farmacie per fare scorte di cibo e di medicinali, aumentò repentinamente l’acquisto di armi da difesa personale e, ovviamente, poi seguirono moltissimi casi di attacchi di panico, crisi di ansia, ecc. Ciò che ho fatto in questa situazione è stato quindi quello di attingere alle informazioni solo da fonti ufficiali e attendibili, per limitare la diffusione di notizie infondate, le fantomatiche “fake news”! Sono stata quindi in grado di fornire notizie sempre ponderate, senza allarmismi, con molta cautela ho invitato le persone a prendersi cura di sé e dei propri cari, facendo appello alle risorse che ciascuno di noi ha: istinto di sopravvivenza, creatività, spirito di adattamento… accompagnate possibilmente anche da una buona dose di senso di responsabilità.

 

Primi problemi: quali sono stati? Quali ansie si sono manifestate per prime nei pazienti, tenendo conto che nella nostra terra abbiamo avuto sin dall’inizio una grande fortuna, quella della bassissima percentuale di contagi?  

La difficoltà iniziale è stata, almeno nella nostra zona, adattarsi al cambiamento di abitudini di vita come ci è stato richiesto dai vari DPCM che si sono susseguiti in queste settimane. Siamo stati tutti chiamati ad un risveglio del nostro senso del dovere, senso civico e di comunità. Questo ha comportato cambiamenti per tutti, piccoli e grandi. Sappiamo che inizialmente ogni cambiamento è fastidioso, soprattutto quando ci viene imposto dall’alto. Ci serve tempo per capirlo, farlo nostro, assimilarlo e per poterlo poi accettare e condividere.… e devo dire che le prime settimane le ho davvero passate al telefono con quanti si sono rivolti a me (così come a tanti altri miei colleghi) per avere rassicurazioni sulle buone prassi da adottare, sia sotto il profilo sanitario che sotto il profilo emotivo e psicologico. Ho istituito immediatamente un numero apposito per le emergenze… le persone chiamavano per diverse ragioni: chi per avere rassicurazioni, chi per gestire una crisi di ansia in diretta, chi per chiedere consigli su come gestire i comportamenti sintomatici dei figli, chi per sentirsi restituire un po’ di speranza…

 

Come hanno preso le misure di distanziamento sociale bambini e anziani?  

Nella nostra zona, nonostante la bassa incidenza dei contagi, le persone hanno davvero dimostrato un alto senso civico rispettando le regole. Eccetto sporadiche eccezioni, la maggior parte della gente ha manifestato una buona capacità di adattamento. Vuoi perché qui quasi tutti hanno un giardino in casa dove passeggiare, vuoi perché viviamo già con servizi essenziali (per cui non ci sono mancati i grandi eventi tipici delle grandi città…) bene o male si sono adattati. Però, nello specifico, i bambini hanno sofferto l’allontanamento dagli amici e dai compagni di scuola, gli anziani spesso dimenticavano che si era in quarantena e quindi tendevano a tenere le vecchie abitudini… per molti non è stato facile, c’è voluto un pochino di tempo per abituarsi.

 

Quali soggetti hanno subito le conseguenze maggiori della quarantena e quali accorgimenti ha consigliato affinché non cadessero in depressione?

Per lo spaccato di realtà che ho potuto vedere con i miei occhi, la depressione non è l’unica conseguenza. Già adesso alcune persone stanno manifestando i sintomi da DSPT (disturbo da stress post-traumatico), ma è un fenomeno che purtroppo vedremo aumentare nei prossimi mesi. È infatti un disturbo che, come dice la stessa denominazione, si presenta dopo un evento stressante, anche a distanza di molti mesi. La persona reagisce immediatamente con le risorse che possiede, quindi per un po’ di tempo “regge” la situazione. Ma poi le energie si esauriscono e iniziano i comportamenti sintomatici: la depressione è uno di questi ma non è l’unico. Ci sono manifestazioni di aggressività, di ripudio, di ansia, di negazione, di anedonia… sinceramente non penso che ci sia una categoria di persone che sia rimasta completamente indenne dalla quarantena e dall’isolamento, ma senza dubbio alcune persone hanno riportato disagi maggiori, per esempio le vittime di violenza domestica, gli adolescenti e le persone che hanno perso il lavoro.

Per gli adolescenti, il non potersi incontrare con i propri pari ha provocato in molti giovani veri e propri sentimenti di perdita, con emozioni che vanno dalla rabbia alla tristezza, alla rassegnazione. E siccome queste reazioni sono le stesse che si hanno quando subiamo un lutto, vanno gestite come tali. L’aspetto positivo è che dopo un po’ ci si rende conto che è solo una fase temporanea, e che si può riaccogliere la serenità nella nostra vita, dopo aver lasciato andare il dolore. Per chi ha perso il lavoro invece il discorso è un po’ più complesso, perché al sentimento di perdita si aggiunge anche la preoccupazione economica per il futuro di se stessi e dei propri cari. Situazioni davvero difficili, che vanno gestite personalizzando l’intervento sulla base delle risorse individuali di ciascuno… un po’ come un sarto che cuce un abito su misura. Per le vittime di violenza domestica poi, sono stati attivati numeri di pronto intervento appositi, sono situazioni molto delicate, da gestire col massimo della riservatezza.

 

Com’era prevedibile, le misure di distaccamento sociale sono state prorogate. Le persone erano, come dire, già quasi abituate o è stato un ulteriore colpo per loro?

Qui possiamo distinguere tre diverse tipologie di reazione: l’estremamente cauto, il negazionista e il mediatore… il primo, tra vedere e non vedere, continua con gli stessi comportamenti acquisiti durante la quarantena per garantirsi quel tanto di sicurezza che ne è derivato dall’isolamento; il secondo, stanco e insofferente, nega la persistenza del problema e cerca di ritornare il più possibile alle abitudini precedenti alla quarantena. Infine il terzo cerca di mediare fra il bisogno di sicurezza e l’esigenza di ripristinare il vecchio stile di vita.

 

Parliamo dello smart working. Aspetti positivi: godersi un po’ più la famiglia, avere orari più elastici. Aspetti negativi: totale mancanza di socialità e stimoli esterni. Inoltre, è stato provato che da casa si lavora più a lungo, spesso oltre gli orari stabiliti. Che ne pensa?

Abbiamo scoperto la grande comodità del lavoro da casa, a cui eravamo poco abituati. Inizialmente molte persone hanno in effetti colto la bellezza dei ritmi più lenti nella quotidianità: niente corse al mattino per arrivare puntuali a scuola e a lavoro, niente genitori tassisti che accompagnano i figli alle varie attività scolastiche ed extra-scolastiche, finalmente la colazione insieme, riscoprire alcune attività da svolgere in famiglia come cucinare, giocare, imbiancare casa, fare il pane… ma dopo un po’ anche questo si è placato e ha prevalso la mancanza dei contatti fisici. Non essendoci più i confini “imposti” dagli orari di entrata e uscita dal lavoro, la tendenza è stata quella di plasmare le attività sull’arco delle 24 ore, e l’effetto è stata la sensazione di non staccare mai!  Chiaramente, le persone che hanno subito un minore impatto negativo anche in questo caso sono quelle resilienti, capaci di fare di necessità virtù e trovando sempre nuovi modi adattivi di stare bene pur nell’incertezza.

 

Quali strascichi ci porteremo addosso per sempre, ammesso che ce ne siano?

Non è detto che ce ne siano, e non è detto che siano strascichi negativi… Anche qui credo che la resilienza e la capacità di adattamento siano le chiavi per una ripresa migliore e più veloce. Credo che sia stato per molti un ottimo esercizio mentale e psicologico, per altri invece una meravigliosa opportunità di cambiare l’ordine delle priorità nella propria vita, per altri ancora una possibilità di riscatto, di riappacificazione o di rinascita.

 

Uno degli aspetti più significativi e tristi è rappresentato dalle esequie. Nella nostra cultura, uno degli step dell’elaborazione di un lutto è proprio tutto l’iter del funerale, dalla veglia all’accompagnare il proprio caro in cimitero. Tutto questo non è stato possibile durante la quarantena. Ciò si somma, spesso, al fatto che all’ospedale non si sia potuti stare con il proprio caro gravemente ammalato al momento del trapasso. Senza volermi addentrare in argomenti spinosi, rimarranno delle cicatrici in chi rimane? Qualcuno ha suggerito di organizzare manifestazioni postume, per ricordare il defunto, come appunto in una sorta di veglia. Lei che ne pensa?

Il funerale è l’atto finale del saluto che le persone fanno al defunto. Non avere la possibilità di svolgere le esequie è un po’ come andare via di casa senza salutare, rimane un punto in sospeso, e questo porta spesso ad avere difficoltà nell’elaborare il lutto. La Natura ha una componente omeostatica molto potente e noi esseri umani non facciamo eccezione. Questo significa che stiamo bene se abbiamo la possibilità di mantenere in equilibrio la percezione dei nostri bisogni con la relativa soddisfazione degli stessi, in un continuo processo di autoregolazione. Quando questo fallisce noi stiamo male. Abbiamo bisogno di “chiudere il cerchio” per poter lasciare andare il dolore e la tristezza. Per questo trovo ottimo il suggerimento di organizzare manifestazioni postume in commemorazione del defunto. Le modalità possono essere varie ma quella che personalmente io preferisco, e che suggerisco sempre quando viene in terapia una persona che ha questo bisogno sospeso, è quella di piantare un seme in un vaso o in giardino e di curare la piantina che nascerà e poi, ad un certo punto, affidarla alla natura, non tenerla per sé. Questo permette alla persona di prendersi cura per il tempo necessario del suo dolore e poi lasciarlo andare.

 

Come sarà il mondo post-Covd, secondo lei? Certo, dobbiamo considerare l’emergenza ancora in agguato, però quando tutto sarà finito avremo imparato qualcosa, da questa situazione?

Be’, ogni istante di vita ci propone stimoli che sono insegnamento… qui dipende da quanto desiderio abbiano le persone di imparare! C’è chi apprende una lezione di vita dal volo di un calabrone e chi non riesce a trarre una conclusione neanche davanti ad un’evidenza… dipende…

 

Voi psicologi avete costituito una rete importantissima e avete aiutato le persone a rialzarsi ma siete umani anche voi, avrete avuto le vostre ansie e i vostri timori. Dare forza alle persone ne ha data anche a voi?

Ogni relazione d’aiuto, se fatta con sincerità d’animo e passione, è arricchente. Se poi è di tipo terapeutico, la relazione diventa riparatrice, compensatrice di equilibri perduti e nutriente. Questo comporta in noi psicoterapeuti una grande responsabilità, perché la persona si affida completamente alla nostra professionalità. La forza maggiore la traiamo dalla luce che trapela dagli occhi dei pazienti e che diventa ad ogni seduta più intensa, dalla voce che diventa ogni volta più ferma, dalla postura che si fa ogni volta più aperta e disinvolta… come potrei non uscirne rinforzata? Io ogni volta mi meraviglio di quanto bel potenziale c’è nell’essere umano! All’università, il professore Herbert Franta, sotto la cui supervisione ho fatto la mia prima seduta da terapeuta tirocinante, ci ripeteva spesso: “Fate in modo che il paziente esca dal vostro studio migliore di come ci è entrato”; io faccio il possibile perché questo avvenga ogni volta, e capita ogni tanto che ci riesco!

 

La domanda che non ho fatto è…?

Riguarda il livello di consapevolezza, fondamentale per superare ogni evento traumatico, ogni ostacolo e avere una vita piena e, visto che sono una psicologa, rispondo con un’altra domanda, anzi ben 5: “Cosa stai facendo?”, “Cosa senti?”, “Cosa vuoi davvero?”, “Cosa stai evitando?”, “Cosa ti aspetti?”. Sono le 5 domande strategiche che ci aiutano a riappropriarci della nostra consapevolezza, e ad acquisirne di nuova.  Rispondendo ad ognuna di queste domande, in questo ordine, aumentiamo il nostro livello di conoscenza di noi stessi, di quello che abbiamo vissuto e soprattutto di come l’abbiamo vissuto, ci focalizziamo sul “qui ed ora” rispettando il nostro passato emotivo e con un occhio verso il futuro.

 

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