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Le donne che ci piacciono. Luisanna Porcu: “La violenza sulle donne non è un fatto privato ma pubblico, possibile perché la società lo permette”

Luisanna Porcu è una nota psicologa-psicoterapeuta femminista alla guida del Centro Antiviolenza Onda Rosa di Nuoro e segretaria dell’associazione nazionale D.i.Re – donne in rete contro la violenza. Oggi parliamo con lei di femminismo, discriminazioni di genere e di violenza sulle donne: dai campanelli d’allarme alla denuncia, dall’allontanamento da casa alla necessità di ricostruirsi una vita.

Un lavoro, quello di Luisanna, che la mette quotidianamente davanti al costrutto sociale del “genere”: nascere donna mette sin dall’inizio all’interno di contesti, di aspettative sociali, di ruoli diversi da quelli costruiti socialmente da e per il genere maschile.

 

Quando è nato il Centro Antiviolenza Onda Rosa di Nuoro e perché? Come si è sviluppato nel tempo?

Il Centro Antiviolenza è nato negli anni Novanta come il sogno di un gruppo di donne autonome, antifasciste e non appartenenti ad alcun partito politico, che ha incontrato il femminismo della differenza. Partendo da noi, dalle nostre esperienze, abbiamo iniziato a discutere su ciò che avremmo potuto fare per le donne vittime di violenza. Così sono nati il Centro Antiviolenza Onda Rosa e la Casa Rifugio. Pensati, progettati e vissuti non solo come luoghi di donne, ma come luogo “proprio”, in cui sentirsi a casa, potendo accogliere le altre donne che vi giungono come ospiti gradite.

Noi sappiamo che l’unica strategia di uscita dalla violenza è quella della relazione fra donne, una pratica politica che non considera la donna come vittima, soggetto passivo e debole, ma come soggetto forte, che interagisce con le violenze subite, capace di fronteggiare la situazione per proteggere se stessa e i suoi figli, alla ricerca di possibilità per creare nuove condizioni di vita.

Nella relazione con le donne che si rivolgono al Centro esiste una sorta di disparità, ma che è positiva: da una parte ci siamo noi che disponiamo di informazioni, saperi e competenze maturate in anni di pratica, esperienza e formazione; dall’altra, la donna che porta la sua interpretazione di come agisce la violenza subita sul suo corpo e sulla sua mente.  Lo scambio, quindi, è uno scambio di valore, che non è individuale ma collettivo. Noi operatrici portiamo nei nostri colloqui l’esperienza di donne che da 30 anni in Italia lottano per la libertà. Inoltre diamo valore ai nostri corpi, riconoscendo la necessità che le donne che accogliamo diventino protagoniste del movimento del Centro stesso. Delle azioni, della produzione di saperi: e questo significa esserci, con i loro corpi.

 

Come avete supportato durante la quarantena le donne vittime di violenza, a contatto continuo con il proprio aguzzino? Sono aumentati i casi di violenza e di richieste di sostegno in quel periodo?

Per quanto riguarda la Casa Rifugio, era ed è al completo. Le donne ospiti sono state meravigliose, hanno condiviso la totalità del tempo e gli spazi, trovando soluzioni e gestendo in modo positivo i conflitti, dai quali sono uscite rafforzate tutte. Hanno dovuto per necessità oggettiva da un lato “congelare” il loro percorso, dall’altro hanno avuto modo di delineare a fondo i loro sogni e desideri, dandosi uno spazio di ascolto interiore privo di ogni interferenza.

Per quanto riguarda il Centro Antiviolenza, all’inizio c’è stata una sorta di paralisi. Successivamente sono aumentate le telefonate delle donne che già avevano intrapreso un percorso. Dopo circa 15 giorni, in seguito alla campagna di comunicazione della rete “D.i.Re -donne in rete contro la violenza”, della quale noi siamo socie, che suggeriva alle donne quali potevano essere i momenti per rivolgersi ai Centri Antiviolenza, le richieste di sostegno sono aumentate di quasi l’80% rispetto agli anni precedenti. I colloqui sono stati per lo più telefonici e solo nei casi più gravi, con tutte le dovute precauzioni, abbiamo incontrato le donne di persona.

Sono 5939 le donne che si sono rivolte ai centri D.i.Re tra il 2 marzo e il 3 maggio, di queste circa il 30% per la prima volta, esattamente 1815.

Ovviamente la violenza sulle donne non è un fenomeno collegato all’emergenza sanitaria, nonostante questo sia un momento drammatico che coinvolge tutte le dimensioni del nostro vivere quotidiano. La violenza maschile sulle donne è un fenomeno, purtroppo, che accompagna la vita di tantissime donne ogni giorno per 365 giorni l’anno con modalità e sfumature diversificate e pervasive che minano giorno dopo giorno la sicurezza, la serenità, la salute e la vita di molte donne.

 

Qualsiasi donna è a rischio di subire violenza – dici spesso – indipendentemente all’età, dalla formazione che ha ricevuto, dal lavoro che svolge o dalla cultura di appartenenza. Cosa possono fare le donne che subiscono violenza domestica? In che modo, invece, possono intervenire le persone che, come parenti e vicini di casa, capiscono che in un’abitazione si stanno perpetrando dei maltrattamenti?

 

L’esperienza della violenza maschile è un “patrimonio” comune a tutte noi. Tutte sappiamo di cosa si tratta perché conosciamo momenti in cui, in spazi privati e pubblici, abbiamo percepito odio e disprezzo contro le donne. Quando esercitiamo autonomia sul nostro corpo e sulle nostre vite, possono scattare come strumento di controllo, azioni mortificanti e/o violente. Nessuna di noi ne è quindi immune.

È la donna che sceglie quando liberarsi dalla violenza e progettare per sé una vita libera.

Chi ha la sensazione che l’amica, vicina, collega, figlia, ecc. viva una situazione di disagio o un qualcosa che non va, non deve sottovalutare la sua intuizione, ma manifestarle la disponibilità all’ascolto e qualora lei scelga di raccontare ciò che vive, è importante non giudicarla e rivolgersi in prima persona al Centro Antiviolenza per capire come affrontare la situazione.

 

La violenza non inizia mai con uno schiaffo. Quali sono gli step, come messaggi impliciti e ricatti, che portano agli episodi di violenza? Come riconoscere una reazione violenta: quali sono i campanelli d’allarme?

La violenza maschile sulle donne è la punizione quotidiana che l’uomo infligge alla donna perché non si comporta come lui aveva deciso per lei. Non si caratterizza subito con i maltrattamenti di tipo fisico, ma intenzionalmente vengono messe in atto violenze di tipo emotivo e psicologico meno evidenti, più subdole. Tali violenze spesso iniziano sotto forma di intimidazioni che avvengono attraverso la coercizione, il controllo economico, le minacce, il terrore di subire aggressioni fisiche ed il ricatto.

Segue l’isolamento, determinato dal continuo tentativo dell’uomo di limitare la donna, i contatti con la propria rete parentale e amicale, la possibilità di coltivare hobby o altri interessi. L’isolamento può passare anche attraverso l’impedimento alla donna di lavorare al fine di escluderla dal contesto sociale lavorativo. In questo modo la donna perde i punti di riferimento e di confronto sociali e familiari e l’autonomia economica.

Un’ulteriore caratteristica di chi usa violenza è la svalorizzazione di ogni attività della donna. L’obiettivo è privarla dell’autostima per renderla insicura e maggiormente controllabile. Seguono distruzione di oggetti e altri beni della donna, atti intimidatori non solo rivolti a lei direttamente, ma anche indirettamente, ad esempio verso animali o persone a lei care.

In completa solitudine aumenta la sua incapacità di vedere vie di uscita e di cambiare la sua situazione. La donna vive in uno stato di reclusione e isolamento affettivo; infatti tutti gli aspetti della sua vita possono finire sotto controllo: posta, telefonate, sottrazione dei documenti. Si può attivare in tali casi una vera e propria segregazione, cioè una forma di ulteriore isolamento per negare l’autodeterminazione della donna.

Quando la donna inizia a ribellarsi e cerca di uscire dalla violenza, l’abusante l’aggredisce fisicamente per ristabilire lo status quo, incuterle terrore e impedirle di reagire o di andarsene.

La violenza aumenta di intensità. Spesso le donne sono costrette a subire rapporti sessuali contro la loro volontà perché minacciate con ritorsioni o violenze fisiche. In molte donne s’insinua anche l’obbligo di assolvere ad un dovere coniugale sulla base del ruolo stereotipato.

A questo punto, dopo le aggressioni seguono le false riappacificazioni, cioè falsi pentimenti, caratterizzati da regali, promesse quali “non lo farò più”; “ ti giuro che cambierò”. Purtroppo, questa luna di miele è temporanea e crea la falsa illusione che non si debba ripresentare una nuova violenza.

Questo comportamento genera confusione: la donna è spinta a credere, anzi vuole credere, che il compagno sia finalmente cambiato. In realtà stiamo parlando di un meccanismo strategico messo in atto dall’uomo che continua a perpetuare il controllo sulla donna.

Un’ulteriore fase che caratterizza la spirale della violenza è il ricatto sui figli. Il partner minaccia la propria compagna di toglierle i figli se decide di lasciarlo. Per sostenere questa affermazione e usarla come reale minaccia, il partner fa affidamento sulla non conoscenza  da parte della donna dei propri diritti e sulla mancanza di confronto con altre persone e consulenti legali che potrebbero rassicurarla in merito ai figli e al loro affidamento.

 

Quali sono le conseguenze psicologiche legate alla violenza? Come si elabora il trauma?

La violenza che noi viviamo ha come l’obiettivo quello di renderci succubi, schiave, senza testimoni. Nel nostro Centro Antiviolenza Onda Rosa, e in tutti quelli della rete D.i.Re, il sostegno fornito alle donne per elaborare il trauma si fonda su alcuni principi cardine:
valorizzazione delle donne, rafforzamento dell’autonomia e potere decisionale, costruzione di relazioni fra donne come strategia di uscita dalla violenza.

La pratica politica tra donne ribalta l’ottica dell’intervento. Quindi da una posizione che considera la donna come vittima, soggetto passivo e debole ad una considerazione della donna come soggetto credibile, forte, che interagisce con le violenze subite, capace di fronteggiare la situazione per proteggere se stessa e i suoi figli/e alla ricerca di possibilità per ristabilire nuove condizioni di vita.
Ascoltare e parlare in prima persona di vissuti di violenza, di soprusi quotidiani, il partire da sé per delineare e definire il nostro pensiero, altro non è che una presa di coscienza e di parola da parte di noi donne. Parliamo quindi di autocoscienza.

 

 

Il lavoro con le donne sopravvissute alle violenze maschili è quindi un lavoro quotidiano di autocoscienza femminista, dove la parola della donna e l’ascolto della sua esperienza sono elementi fondativi nella costruzione della relazione tra lei e voi operatrici. 

Sì, su questa base si instaura un rapporto di reciprocità con una o più donne. Il vissuto di noi operatrici possiamo definirlo come una forma di pensiero sempre disposto a ricominciare da capo e la trasformazione che le donne attuano nella propria vita, anche attraverso la relazione con noi operatrici, è una pratica politica in quanto dà significato alle esperienze di violenza e sopraffazione in base ai vissuti delle donne e non in base al pensiero dominante della nostra società patriarcale.

Possiamo dirci quindi che la nostra pratica politica è una pratica trasformativa sia per quanto riguarda la società tutta sia per quanto riguarda la singola donna che si rivolge ai nostri centri. Il nostro è un lavoro che prevede il superamento di approcci tecnici standardizzati e aprioristici, a favore di un metodo che parte dal dar credito al racconto delle donne e dalla fiducia costruita nella relazione.

Noi operatrici, sia che ci occupiamo di accoglienza, sia se lavoriamo nella casa, sia se siamo psicologhe, mediche o avvocate, varcando la porta del Centro siamo capaci di spogliarci del nostro ruolo “canonico”, per utilizzare al meglio, nella relazione con le donne, saperi e professionalità.

La relazione non è intesa come servizio di cura e/o assistenza ma come cooperazione in un processo di presa di coscienza e costruzione di forza a partire da situazioni specifiche per un cambiamento culturale e ampia e piena realizzazione di sé. La nostra metodologia di accoglienza delle donne si basa principalmente sulle pratiche di relazioni tra donne che promuovono l’empowerment che ribalta il concetto di potere insito nella violenza. Il nostro approccio restituisce potere, soprattutto il potere di scelta che la violenza annulla totalmente.

Su questa base instauriamo un rapporto di reale reciprocità con la donna, che in un primo momento può avere il pensiero di essere in una posizione asimmetrica, ma già dal primo incontro con l’operatrice sperimenterà che chi la accoglie è simile a lei perché donna, a prescindere dal suo ruolo in quel momento, e quindi vittima della stessa società patriarcale, che opera e agisce una discriminazione costante nei confronti del femminile.

Nei nostri Centri non ci sono prostitute, maltrattate, poverette, pazienti o utenti, ci sono donne che hanno deciso di uscire da un’esperienza grave di violenza e che cercano di riprendersi in mano la loro storia. Noi mettiamo a loro disposizione il nostro desiderio di incontrarle, una solidarietà profonda e gli strumenti politici di cui disponiamo perché possano riuscire a realizzare i loro desideri.

Le donne che si rivolgono ai Centri, per noi sono “in stato di temporaneo disagio”, sono quindi donne che stanno male oggi ma che potranno benissimo stare bene domani. Noi operatrici non facciamo mai una fotografia negativa, limitante in quanto i nostri Centri sono luoghi di transito verso l’autonomia, dei luoghi sì per sottrarsi alla violenza ma soprattutto luoghi di avvicinamento alla libertà.
L’approdo al Centro rappresenta l’incontro con un luogo riconoscibile vicino alla buona normalità della vita quotidiana, e quindi poco identificabile come spazio dedicato al disagio.

La donna che si rivolge al Centro, per noi è un soggetto agente, è attrice principale del suo percorso di uscita dalla violenza, un percorso che la porta a riprendere in mano la sua esistenza. Noi operatrici strutturiamo “con lei” e non “per lei”, un progetto di ridefinizione, riorganizzazione di vita senza mai sostituirci a lei.

Pensiamo quindi con le donne un percorso verso l’autodeterminazione femminile fuori dalla violenza maschile. Nel nostro lavoro diamo centralità alla donna, le restituiamo costantemente la dimensione collettiva e culturale del suo subire violenza intervenendo così sul suo senso di inadeguatezza e di sconfitta personale e disarticolando così, inevitabilmente, qualsiasi approccio alla vittimizzazione.

 

Su quali elementi lavorate, in particolare, per costruire con le donne nuovi percorsi di vita?

Le donne che subiscono violenza sono tante, potenzialmente tutte, per questo nel nostro lavoro non adottiamo un modello d’intervento precostituito, simile o uguale per ogni donna, al contrario, nel costruire con la donna e mai per la donna la riprogrammazione della sua esistenza, non solo non imponiamo tappe e tempi, ma non dimentichiamo mai di partire dagli elementi di forza, presenti in maniera diversa in relazione alle singole storie di vita, ma sempre valorizzabili per il raggiungimento della libertà e l’autodeterminazione.

Il nostro lavoro non è di tipo “assistenziale”. La sola assistenza anche se fornisce risposte immediate, lascerebbe la donna in una situazione passiva; lo scopo del nostro lavoro è invece quello di sostenere la donna affinché aiuti se stessa a ritrovare il coraggio e la forza per costruirsi un progetto di vita futura concreto che tuteli se stessa e i suoi figli/e. Un lavoro che parte dall’analisi della propria storia personale, dei sensi di colpa, del vissuto di violenza, al fine di riacquistare un livello di autonomia e assertività tali che le permettano di gestire e superare le difficoltà.

Non lavoriamo per un cambiamento del sé ma per una realizzazione di sé. Non c’è niente di prescritto, nessuna è obbligata alla denuncia o alla separazione. Le operatrici offrono una visione politica che spinge a guardare il mondo al di là della cultura dominante nella quale l’ordine simbolico maschile è così scontato da far passare come normale la prevaricazione, il controllo, la gestione delle relazioni in termini di potere e violenza.

Tutta la pratica dei nostri Centri nel lavoro con le donne parte dal presupposto che la violenza ha una natura strutturale. Si stratta di uno dei meccanismi sociali per mezzo del quale le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

Nel nostro lavoro ci confrontiamo con le donne sul costrutto sociale del “genere”, sul fatto che nascere donna ci mette sin dall’inizio all’interno di contesti, di aspettative sociali, di ruoli diversi da quelli costruiti socialmente da e per il genere maschile.

Ci soffermiamo sul rafforzamento della loro identità di donne, aiutandole a valorizzarsi come individui, offrendo loro l’opportunità di raggiungere una buona opinione di sé e delle altre donne, restituendoci reciprocamente fiducia in noi stesse.

 

Cosa fate per i bambini che si sono trovati coinvolti in casi di violenza domestica?

Le donne molto spesso hanno dei figli, che a loro volta sono delle vittime di violenza diretta o assistita. Come Centro mettiamo a punto dei percorsi di riparazione del danno per i bambini e per le donne come “madri”, in quanto la violenza danneggia, a volte, anche la relazione madre-bambino.

La letteratura scientifica sul trauma afferma che come un’esperienza negativa danneggia il funzionamento di un bambino, altre esperienze positive e riparative, possono ridare una funzionalità corretta a delle aree che si sono messe a lavorare scorrettamente.
È da qui che parte la metodologia di lavoro di Onda Rosa, dove vengono messe a punto azioni di “buon trattamento” come alternativa multiforme al maltrattamento all’infanzia; partendo dal presupposto che per contrastare il maltrattamento non basta individuarlo e fermarlo come spesso si fa, ma bisogna sostituirlo con altro.

Purtroppo, molto spesso, i bambini all’interno del Centro fanno dei percorsi eccellenti di elaborazione del danno, sperimentano altri modelli di pensiero e di comportamento, stabiliscono un forte rapporto di fiducia e alleanza con la madre, unico genitore protettivo, ma poi c’è lo scontro con la realtà giudiziaria italiana dove per legge nei casi di separazione l’affido dei bambini è congiunto.

Nei casi di violenza non dovrebbe essere così, ma poiché in Italia molto spesso si confonde la violenza con il conflitto, purtroppo quando le donne chiedono la separazione viene contemplato l’affido congiunto al padre violento, il quale poi usa il bambino per continuare a maltrattare ed esercitare potere e controllo sull’ex partner e dove nessuno sembra tenere in considerazione che la violenza alle madri e ai bambini non si ferma con la separazione, ma da quel momento inizia il fenomeno della stalking.

 

Cosa vuol dire essere femministe oggi? Perché in Italia oggi è più che mai importante parlare di femminismo?

Il femminismo e la sua lotta non si sono fermati, perché le disuguaglianze e le ingiustizie sono tante ancora da abbattere, in Occidente come in Oriente, in Italia come altrove, e le generazioni future hanno questo in mano, hanno il potere del cambiamento e di poter proseguire quello che si è iniziato, avendo come punti di riferimento gli obbiettivi raggiunti, perché la differenza sessuale è un problema ancora aperto, che deve affermare l’uguaglianza nel modo giusto, perché, ciò che pensa una donna è pensiero e non interesse di parte. Il che significa anche che ciò che lei pensa è pensiero per tutte e tutti.

 

 

Cosa pensi dei movimenti come #metoo e time’s up? I social, in quella che oggi viene definita la quarta ondata di femminismo, aiutano a veicolare i giusti messaggi o no? Non si rischia di avere tanta presenza in rete e poca sui territori?

Si tratta di movimenti legati prevalentemente alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro, nati entrambi dal mondo del cinema. È molto importante che le donne continuino ad affermare che la violenza non è un fatto privato ma pubblico, che è possibile solo perché la società lo permette.

Così come è importante creare fondazioni che raccolgano danaro da destinare ad altre donne che hanno vissuto esperienze di violenza o a campagne di prevenzione, comunicazione ecc. Il problema poi del veicolare i messaggi sui social è legato al fenomeno della nuova modalità di comunicazione. Tanta presenza in rete e poca sui territori? Credo che le donne, le giovani donne, debbano sempre più fare politica femminista, la politica delle donne.

 

 

Michela Murgia accanto ad Onda Rosa. Come è nata questa collaborazione?

Michela è una femminista e ci siamo incontrate per caso tanti anni fa. È nata una stima reciproca con tutte noi, un legame forte con la nostra metodologia dell’accoglienza.

 

Violenza sulle donne e le storie di chi ce l’ha fatta. Ci sono dei libri che consigli su questa delicata tematica?

Per quanto riguarda ciò che noi donne tutte viviamo esistono librerie con un ampio catalogo, come la libreria delle donne di Milano o di Bologna, dove si trova davvero di tutto.

 

Ci sono delle storie che ti hanno particolarmente colpita/ segnata nel tuo percorso professionale?

Ho accolto tantissime donne e le ricordo tutte, perché con i racconti dei loro vissuti, attraverso le nostre relazioni ci siamo scambiate una forza che ha tutte trasformate.

 

Quali sono le norme e le leggi in Italia che tutelano la donna? Quanto lavoro c’è da fare in quest’ottica? Come possiamo, quindi, contribuire a costruire percorsi di libertà per le donne, in futuro? Quali le battaglie da portare avanti al giorno d’oggi, nelle case, nei tribunali e nelle scuole?

A fronte di un fenomeno così vasto e complesso, la Convenzione di Istanbul prescrive risposte che mettono al centro le donne e i loro bisogni, che vanno dall’accoglienza, alla protezione fino all’autonomia economica.

Il Grevio, cioè il gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, dopo due anni di monitoraggio sull’applicazione della convenzione di Istanbul nel nostro paese ha pubblicato un rapporto a gennaio 2020, che ad oggi il DPO non ha neanche tradotto, che era la prima raccomandazione del rapporto.

Le principali raccomandazioni del Grevio allo Stato Italiano, che l’associazione nazionale D.i.Re ha presentato in diversi contesti, sono:

 

Nel 2014 l’Intesa Stato-Regioni ha definito quelli che sono i criteri minimi di accreditamento, che da un lato consente l’accreditamento dei Centri Anti Violenza anche a organizzazioni sociali che non hanno competenza specifica e prioritaria nel contrasto alla violenza maschile sulle donne e che quindi non forniscono un supporto che va dall’accoglienza all’autonomia come previsto dalla convenzione di Istanbul. Dall’altro escludono, e danno potere alle regioni, di non inserire tra i Centri Antiviolenza da sostenere e finanziare, organizzazioni eccellenti di donne con esperienza trentennale, come nel caso della Lombardia che finanzia solo chi fornisce il codice fiscale delle donne.

 

Segretezza e anonimato sono essenziali per accompagnare le donne che chiedono aiuto.

I Centri della Rete D.i.Re lavorano per la libertà femminile per fare uscire la forza che tutte le donne, così come anche una donna maltrattata ha dentro di sé. Questo è l’unico modo per contrastare la violenza. Nel lavoro contro la violenza maschile sulle donne la metodologia è tutto. E’ un metodo basato sulla relazione tra donne che stabilisce molto precisamente percorso e criteri dal momento delicatissimo dell’accoglienza, alla costruzione di un progetto non sulla donna ma con la donna, la quale resta la protagonista insostituibile del suo percorso di liberazione dalla violenza.

Deve essere lei, non le “esperte”, a stabilire i tempi del suo percorso, senza mai essere giudicata. E deve essere lei ad attivare le sue risorse interiori, la sua forza e i suoi desideri, in un percorso condiviso con le altre che mettono a disposizione professionalità, esperienza ed empatia, ma soprattutto la voglia di condividere con la donna questo passaggio delicato della sua vita.

 

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