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Le donne che ci piacciono. L’attivista e insegnante ogliastrina Loredana Rosa: “Tutti dovremmo essere femministi”

L’ogliastrina Loredana Rosa, grecista, docente di Italiano per Stranieri L2, presidente dell’associazione culturale Voltalacarta, attivista per le pari opportunità e per i diritti umani, oggi riflette insieme a noi – con la profondità e la passione che la contraddistinguono – sul femminismo, sul linguaggio di genere e su tutte le azioni che possiamo portare avanti nel tentativo di costruire un mondo senza sessismo e discriminazioni.

 

Cosa vuol dire essere femministi? Perché oggi è più che mai importante parlare di femminismo?

Essere femministi e femministe oggi significa avere a cuore non solo la causa delle pari opportunità tra uomini e donne, ma anche un’attenzione particolare per la tutela dei diritti umani, delle persone LGBTQ e, ti dirò di più, anche per una serie di problematiche che vanno dal rispetto per l’ambiente e includono la difesa di ogni essere vivente. Tuttavia, è importante usare la parola “femminismo” (che non è il contrario di “maschilismo”) perché mette in risalto la specificità del problema di genere. Come dice Chimamanda Ngozi Adichie, una delle mie scrittrici preferite, “Dovremmo essere tutti femministi”.

Quali sono nell’Italia di oggi le battaglie femministe da portare avanti?

Sono numerosissime, riguardano l’intero assetto della nostra società e non possono prescindere dal contributo che ogni singola persona può apportare. Chiaramente la politica ha una responsabilità enorme e credo che ad essa si chieda lo sforzo maggiore, per adottare misure di cambiamento necessarie e urgenti. Mi riferisco, in primis, al dramma della violenza domestica, di cui tutti ormai conosciamo i numeri nel nostro Paese, alle discriminazioni legate all’ambito lavorativo (divario salariale tra uomini e donne oltre che violenze subite dalle donne sul posto di lavoro), al fenomeno della violenza cosiddetta “cibernetica” (sexting, cyberbullismo sessuale e revenge porn), alla lotta al turismo sessuale e allo sfruttamento sessuale minorile, al contrasto di tutti gli stereotipi sessisti negli organi di informazione, nella pubblicità e nella comunicazione in generale.

Vi sono poi anche altre questioni “interculturali” che non possono certo essere trascurate, come il fenomeno delle spose bambine,  delle mutilazioni genitali e del mancato accesso al diritto all’istruzione, che riguarda nel mondo prevalentemente le giovani donne. L’elenco è davvero lunghissimo.

Con l’associazione Voltalacarta, che presiedi, vi occupate di questo?

La battaglia da intraprendere è di tipo culturale. Sono convinta che la violenza maschile sulle donne non debba essere trattata in un’ottica emergenziale, perché è un fenomeno strutturale che ha radici profonde nella nostra cultura ed è con strumenti culturali e educativi, quindi, che deve essere combattuta.

Per questo, l’attivismo con l’associazione Voltalacarta ci vede principalmente impegnati in progetti formativi-informativi all’interno delle scuole, ai fini di sensibilizzare i più giovani su tematiche che riteniamo fondamentali per la creazione del buon vivere civile, basato sul rispetto reciproco e contro ogni discriminazione di genere. Agire solo sul piano punitivo e repressivo, inasprendo le pene come se questo costituisse un deterrente, non dà grandi risultati, è ormai palese. In Italia le leggi sul contrasto alla violenza di genere non mancano, ma non sempre vengono applicate. Per ignoranza, convenienza politica o, banalmente, per mancanza di fondi. Basti pensare alla Convenzione di Instanbul,  il documento più illuminato prodotto a livello internazionale, che dà direttive precise sul contrasto alla violenza di genere ma è quasi totalmente inapplicato nel nostro Paese.

La stessa legge sul “codice rosso”, promossa dal governo gialloverde la scorsa estate, oltre a presentare diverse criticità operative, non è sostenuta da adeguate risorse economiche. E quel che è peggio, è che mancano leggi sull’educazione alla parità di genere nelle scuole: la cosiddetta Legge 107/2015 sulla “Buona scuola” dà disposizioni generiche e non vincolanti in materia, lasciando l’onere a insegnanti più attrezzat* e illuminat*. Senza dimenticare quanto questo tipo di approccio venga osteggiato, attraverso lo spauracchio della fantomatica e ridicola “teoria gender”, dalle componenti più reazionarie della politica italiana e internazionale. Il recente rapporto del Grevio (Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne, l’organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul in tutti i paesi che l’hanno ratificata), chiede proprio una politica stabile, che strutturi sinergicamente la formazione e l’educazione, che metta in collegamento le diverse figure professionali, dai magistrati, alle forze dell’ordine, agli avvocati, agli ospedali, alla scuola ecc. Questa esigenza interdisciplinare è oggi un’urgenza totalmente disattesa, tranne che per il preziosissimo lavoro dei centri antiviolenza, troppo spesso vessati dalla scarsità o dai ritardi dei fondi erogati.

In sintesi, per tornare alla tua domanda: la lotta principale che deve vederci impegnati in prima linea, uomini e donne insieme (“Insieme si fa la differenza” è, non a caso, lo slogan della mia associazione Voltalacarta) è quella contro la cultura sessista, discriminatoria e ancora dannosissima del Patriarcato.

Loredana Rosa con i suoi studenti

Sei in prima linea nella difesa e nella valorizzazione del linguaggio di genere. Perché è così importante non sottovalutarne l’uso?

Benché la questione del linguaggio di genere sia oggi ancora sottovalutata e talvolta schernita, io credo sia importantissima. Penso che le parole non siano semplici strumenti di comunicazione, ma condizioni indispensabili per poter effettivamente pensare. Cecilia Robustelli, studiosa insigne dell’Accademia della Crusca – che in questi anni è stata per me un faro, un punto di riferimento altissimo e assoluto per approfondire gli studi linguistici in tal senso- spiega che ‘ciò che non si dice, non esiste’, e su questa teoria bisognerebbe basarsi per un ritorno alla consapevolezza delle parole.

Il modo in cui il linguaggio rappresenta la realtà influisce direttamente sulla realtà stessa, nomina sunt consequentia rerum come ci ricorda Dante nella Vita Nuova. La lingua contribuisce ad accelerare le innovazioni, in questo caso la sempre maggiore emancipazione femminile, per quanto in Italia siamo decisamente più indietro rispetto a molte altre Nazioni del mondo. Per fortuna questo impegno per un uso non sessista della nostra lingua è oggi sostenuto da un numero sempre maggiore di persone (penso al costante contributo dato dagli studiosi e studiose dell’Accademia della Crusca e all’impegno di certa parte del mondo giornalistico, come l’associazione GiULiA) e, anche grazie ai social, la sensibilizzazione su queste tematiche è maggiore.

Dal punto di vista legislativo, ancora una volta, non mancano linee guida per un uso sessuato della lingua, a partire dall’imprescindibile lavoro di Alma Sabatini (Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, 1987) fino a documenti a noi più vicini, come le Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR, o le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, documenti preziosi curati dalla Prof.ssa Robustelli.

In Sardegna, grazie all’impegno dell’allora consigliera regionale Anna Maria Busia, abbiamo una legge del 2016 all’interno della quale è presente un articolo che finalmente parla di sviluppo delle politiche di genere e revisione del linguaggio amministrativo verso la ‘femminizzazione‘ di termini maschili, il che dimostra che, dal punto di vista istituzionale, è stato fatto un importante passo avanti. Nonostante ciò, vi sono ancora donne con cariche importanti che vogliono essere definite al maschile (prefetto, sindaco, ministro, rettore, segretario) perché sentono come svilente la versione al femminile. Prese di posizione simili derivano forse da una tendenza presente all’incirca fino agli anni ’80, che identificava l’emancipazione femminile come sinonimo di parità, intesa però come omologazione al mondo maschile.

In sostanza, non mancano indicazioni ministeriali in tal senso, ma credo che anche la questione del linguaggio di genere proceda di pari passo col cambiamento culturale. Dopo tutto si tratta di rispettare la grammatica della nostra meravigliosa lingua.

Al solito simpaticone che ci risponde: “Allora devo dire dentisto?” cosa rispondiamo?

Innanzitutto rispondiamo con l’invito a ripassare le regole grammaticali della nostra meravigliosa lingua. Risulta un mistero perché, diversamente da quanto accade per altri ambiti specialistici, quando si parla di linguaggio di genere vengono sistematicamente bypassate tutte le imprescindibili competenze in materia e chiunque si sente in diritto di esporre -con orgoglio- la sua crassa ignoranza.

La mia esperienza è che la discussione sul linguaggio di genere segue più o meno un iter costante: in primis vengono avanzate obiezioni pseudo ironiche come “e allora dentisto? E pediatro? E piloto?”; in seguito, dopo aver pazientemente spiegato che i sostantivi che terminano al singolare col suffisso greco -ista, -ota e -atra non sono neutri ma ambigeneri e che la differenza di genere torna esplicita al plurale, il/la simpaticone/a di turno si piccherà, dandoti del/la saccente (o “maestrina”, se sei una donna) e, infine, uscirà dalla discussione dicendo che ci sono “ben altre” cose importanti di cui occuparsi.

Il “benaltrismo” è oggi uno degli argomenti più tristemente diffusi nella comunicazione di chi, di argomenti, ne ha ben pochi. Personalmente sono convinta che l’unico antidoto all’ignoranza, amica stretta dell’arroganza, sia lo studio. E una buona dose di umiltà, che non guasta mai.

Cosa pensi dei movimenti come metoo? I social sono utili nella lotta femminista odierna, in questa – come viene definita – quarta ondata di femminismo?

È di questi giorni la notizia che il produttore Harvey Weinstein, ex re di Hollywood accusato di violenze sessuali, è stato condannato a scontare una pena di 23 anni in carcere e sarà ufficialmente registrato come “sex offender”, negli albi di chi commette reati sessuali. Weinstein, come è noto, è stato il principale bersaglio del #MeToo, il movimento che per anni ha denunciato gli abusi sessuali e i soprusi nei confronti delle donne sul posto di lavoro in numerosi settori, a cominciare da cinema e spettacolo ma non solo. Questa notizia è importantissima in termini di giustizia, ma anche un grande risultato in termini di presa di consapevolezza della necessità sociale (e social!) di fare fronte comune contro la violenza maschile sulle donne.

Questa risposta sancisce il valore prezioso di movimenti come il #MeToo, ma anche di molte altre realtà femministe come Non Una Di Meno, One Billion Rising, Di.Re (Donne in Rete contro la violenza, che comprende ottanta centri antiviolenza italiani), i movimenti recenti che hanno guidato le proteste delle donne in Cile e moltissimi altri. Esiste oggi anche un associazionismo di uomini “femministi” che portano avanti una battaglia contro la cultura patriarcale: penso a NoiNo.org, Maschile Plurale, Il Maschio Beta e altri, che -al di là del dibattito sulla questione separatista- io credo svolgano una funzione di sensibilizzazione da valorizzare. Per quanto riguarda la realtà sarda, è importante segnalare il gruppo facebook Heminas, amministrato dalla già citata avvocata Busia e da Cristina Muntoni, giornalista, scrittrice e studiosa della Sacralità Femminile, disciplina che, grazie al suo prezioso contributo, sta aprendo varchi importantissimi nell’ambito degli studi di genere. In poco tempo questo gruppo (come molti altri in rete) ha raccolto migliaia di adesioni da ogni parte del territorio nazionale e non solo, stimolando il confronto e fornendo utilissimi strumenti di informazione sulle tematiche femministe odierne. La nostra stessa associazione è in costante contatto con realtà locali e internazionali, e, tra le varie collaborazioni, ha attivato un gemellaggio con il dipartimento di Italianistica dell’Università di Città del Messico, in una nazione in cui il numero dei femminicidi raggiunge quotidianamente cifre agghiaccianti.

Ritengo quindi che la rete oggi abbia un ruolo preziosissimo per la diffusione di una cultura antisessista e per la mobilitazione globale delle coscienze.

Le disparità di genere si rilevano tantissimo anche in ambito lavorativo. In quest’ottica, scattiamo una fotografia della situazione attuale in Italia.

Il mondo del lavoro e delle professioni è una cartina di tornasole che evidenzia come, nonostante proclami e belle parole, la disparità di genere sia ancora molto presente. A cominciare dalla presenza delle donne nei posti di lavoro, dove il gap varia a seconda del mestiere o della professione: si va dal 12% delle professioni concernenti la salute all’84% nell’industria, mentre nel settore agricolo siamo intorno al 47%. Questo è quanto emerge dal Decreto Interministeriale Lavoro-Economia n. 371 del 25 novembre 2019 che individua per il 2020 i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno il 25%, soglia che consente ai datori di lavoro, grazie alla legge Fornero del 2012, di beneficiare di un incentivo contributivo del 50%, per l’assunzione di donne disoccupate, o irregolarmente occupate, da almeno sei mesi. Questa è una misura di tipo puramente economico che va comunque supportata da politiche di sostegno alle famiglie, che consentano alle donne di lavorare, senza doversi sobbarcare da sole il carico fisico e psicologico della cura familiare. Ma anche per questo è necessario e urgente un cambio culturale, che renda normale che a farsi carico della famiglia siano entrambi i membri della coppia e a non considerare più l’apporto maschile come una gentile concessione o un atto di illuminata benevolenza.

La questione salariale, se possibile, fa ancora più rabbia. Perché a fronte di dati che ci dicono che le donne studiano di più, in numero maggiore degli uomini, si laureano meglio e sono, quindi, mediamente più competenti, continua a esserci una insopportabile differenza nelle retribuzioni, e questo è un dato universale. In Italia, le cifre ufficiali sembrano dirci che stiamo meglio di altri Paesi, appena il 5,5% secondo Eurostat. Ma sono dati ingannevoli, perché sono calcolati sul costo orario del lavoro: se calcoliamo il minor numero di ore lavorate e il più basso tasso di occupazione femminile, questo dato sale al 43,7%, sempre secondo Eurostat.

C’è poi l’aspetto del cosiddetto “soffitto di cristallo” che riguarda il mondo del lavoro, delle professioni e della politica, per non parlare di quello accademico. Ovvero l’enorme difficoltà per le donne di raggiungere ruoli apicali: in Italia abbiamo appena sei rettrici, di cui una a Cagliari; le direttrici di giornale si contano sulle dita di una mano; in politica l’unica segretaria di partito è Giorgia Meloni; e potrei continuare a lungo. E questo, come già detto, a fronte di una maggiore competenza e professionalità delle donne. Gli ultimi avvenimenti legati all’emergenza coronavirus ce l’hanno ricordato: a isolare e sequenziare il virus italiano sono state delle ricercatrici dello Spallanzani di Roma e del Sacco di Milano, tutte donne, molte precarie.

Ma, al di là delle lodi e dei ringraziamenti di circostanza e di qualche richiamo alla necessità di cancellare il precariato, non una voce si è lavata, per quanto ho sentito, sulla questione del lavoro femminile e della tutela della sua dignità. Le leggi ci sarebbero ma sono ancora largamente inapplicate. Secondo l’agenzia europea Eurofound (2016) l’Italia, sottoutilizzando il capitale umano femminile, perde 88 miliardi di euro, cioè il 5,7% del Pil: il 23% di tutta la ricchezza persa in Europa a causa della discriminazione di genere. Questi dati mi impressionano particolarmente, perché sono indicativi di come il vero ostacolo da superare nel nostro Paese sia il persistere di una cultura sessista e patriarcale.

Gli uomini, a tuo avviso, invece in quali stereotipi sono imprigionati? In che modo possono contribuire al raggiungimento delle parità? Come dobbiamo educare i nostri figli maschi?

Rispondo citando un filosofo femminista che amo molto, Lorenzo Gasparrini, docente all’Università La Sapienza di Roma, blogger, attivista antisessista e estetologo: prioritaria è la presa di coscienza da parte degli uomini, intesi come genere, di avere un problema, di cui il femminicidio è solo la punta dell’iceberg. In una recente intervista video che consiglio vivamente, lui dice una cosa secondo me fondamentale: gli uomini hanno molto bisogno di una riflessione sul concetto di “libertà”, che nella pratica, purtroppo, è diverso per maschi e femmine (tra i vari, fa l’esempio di come una donna nel gestire la propria libertà, debba ancora porsi dei limiti legati al concetto di pericolo per la propria incolumità). Nei nostri interventi nelle scuole lavoriamo molto sulla lotta agli stereotipi di genere, che tendono a rafforzarsi con la crescita.

Dobbiamo riuscire a trasmettere sin dall’infanzia il concetto che liberarsi dalle gabbie che impongono rigidi modelli soffocanti (es: se piangi sei una femminuccia / se sei troppo scalmanata sei un maschiaccio) significa poter godere di come si è, sviluppando le proprie potenzialità e garantendosi un futuro più felice, da soli o in compagnia. La scuola e l’educazione ricevuta in famiglia possono fare tantissimo, ma solo intervenendo sin dalla prima infanzia, attraverso il buon esempio e le buone pratiche di noi adulti possiamo sperare di avere in futuro una società più attenta alle pari opportunità. Mi rivolgo in particolare ai padri: occupatevi insieme alle madri di ogni aspetto dell’educazione dei vostri figli, leggete, informatevi, frequentate incontri e riunioni che trattano la questione cosiddetta femminile, perché vi riguarda direttamente! Ancora una volta però, ci vorrebbe una politica tesa a promuovere sistematicamente progetti contro la discriminazione di genere e più attenta all’educazione anche sessuale sin dalla più tenera età.

Parliamo di letteratura.Le donne sembrano sempre, nella narrazione, un semplice contorno alle avventure maschili e quando si stilano i programmi scolastici, le scrittrici sono inserite in una percentuale minima, imbarazzante. Perché succede? Come superarlo?

È certamente una questione annosa e sintomatica della cultura maschilista ancora imperante in Italia. Basti pensare che nelle “Indicazioni nazionali per i Licei”, approvate con Dm n. 211/2010, vengono citati diciassette autori del pieno novecento, tutti uomini (Ungaretti, Saba, Montale, Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi, Pavese, Pasolini, Meneghello) e solo una donna, Elsa Morante. Lo scorso anno, nelle sette tracce dell’esame di maturità non era presente nemmeno una donna. Rispondendo alle recenti critiche avanzate in merito, il Miur ha emesso una circolare in cui ricorda che le Indicazioni nazionali hanno un valore orientativo e non prescrittivo per i singoli docenti. Personalmente, ho sempre cercato di potenziare lo studio delle protagoniste della letteratura mondiale di ogni tempo: da Saffo, a Alda Merini, Antonia Pozzi, Chandra Livia Candiani, Mariangela Gualtieri, alla Afro Women Poetry etc.; da Simone De Bouvoir a Natalia Ginzburg, Grazia Deledda, Chimamanda Ngozi Adichie e così via.

Senza tralasciare l’ampia proposta legata ai nomi femminili del mondo della musica e dell’arte in generale. Inoltre, in tutte le nelle nostre scuole lo studio delle Madri Costituenti meriterebbe maggiore attenzione. Insomma, la lista è davvero ricchissima, ma -purtroppo- ancora lasciata al buon senso e alla preparazione dei/lle sigoli/e docenti.

Le femministe hanno lottato per anni per vedere riconosciuti tanti diritti fondamentali. Oltre al diritto di voto, qual è uno dei traguardi più importanti raggiunto dalle donne nel tempo?

Sarò telegrafica: l’eleggibilità (1946), il diritto al divorzio (1970) e all’aborto (1978). Passando per l’abolizione dello ius corrigendi, ossia il potere “correttivo” maschile verso la donna, anche con la forza (1974); l’abolizione del diritto d’onore (1981); l’inserimento dello stupro tra i reati contro la persona e non contro la morale (1996!).

Consigliaci tre libri che possano farci riflettere su queste tematiche.

1. C’è differenza. Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole – Graziella Priulla

2. Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni – Lorenzo Gasparrini

3. Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole – Vera Gheno

Colgo l’occasione per consigliare anche un contributo video: Voci di un verbo Plurale – Insieme si fa la differenza, la video inchiesta condotta da Voltalacarta che vede protagonisti 24 studentesse/i dei licei ogliastrini, che rispondendo a una serie di domande su molti dei temi che abbiamo affrontato in questa nostra chiacchierata, ci offrono il loro originalissimo e a tratti sorprendente punto di vista sulle questioni di genere.