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Arriva al Cinema Odissea il film “L’uomo con la lanterna” della regista Francesca Lixi

Dopo la partecipazione a vari festival, tra cui quello di Trieste in cui ha vinto il premio Corso Salani, arriva a Cagliari “L’uomo con la lanterna”, il primo film di Francesca Lixi, regista cagliaritana. La proieizione è prevista Lunedì 26 Marzo al Cinema Odissea in viale Trieste, per info e prenotazioni è possibile contattare il cinema all’indirizzo spaziodissea@gmail.com.

La trama

Il film racconta la storia di un uomo la cui vita sembra aleggiare tra realtà e mistero, Mario Garau, banchiere cagliaritano, che si è trasferito per lavoro in Cina durante il periodo delle concessioni internazionali all’inizio del ‘900. Mario al suo ritorno in Europa, con i suoi bauli colmi di oggetti,  è comparso nella vita di Francesca, sua nipote, che prima si è sentita attratta da questi oggetti, che hanno diffuso in lei una curiosità travolgente che l’ha accompagnata per tutta la vita, e poi si è messa a studiarli e a indagare, assecondando la curiosità che doveva liberarsi in questo racconto. La storia di un uomo, la storia di un viaggio, la storia della curiosità di una bambina intensificata dal silenzio della famiglia intorno alla storia del misterioso zio, la storia di una donna che ripercorre le sue radici, “L’uomo con la lanterna” è una storia e tante storie, come ci racconta Francesca.

Francesca come è nata l’idea di questo film?

La storia è nata per una serie di circostanze che si sono intrecciate con tutto il periodo della mia crescita. Da bambina ho potuto mettere le mani su degli oggetti che arrivavano a casa mia dentro dei  bauli un po’ misteriosi, arrivavano dalla Cina e sapevo che li aveva portati mio zio Mario Garau che era tornato in Europa. Dentro questi bauli ogni oggetto aveva il suo contenitore di cartapesta toccandoli ho sentito che sensazione dava al tatto una porcellana, un avorio o un bronzo e questa sensazione materica degli oggetti è stato il mio primo incontro con questi bauli.

Poi man mano che io crescevo ho capito che c’erano foto, pellicole, taccuini, documenti personali di questo mio prozio di cui in casa nessuno parlava mai, e forse la storia a iniziato a forgiarsi cosi, con questa curiosità che mi son portata appresso finche poi da grande ho iniziato a realizzare cosa potevo fare con tutto questo materiale che avevo fra le mani. Poi le circostanze, gli incontri, le esortazioni da parte di chi vedeva questo materiale a lavorarci su,  e così questa storia ha iniziato a prendere sempre più spazio poi tra mille peripezie c’è stata la possibilità di scrivere una sceneggiatura, di farla diventare un film.

Cosa ti ha spinto a raccontare una storia che ha un legame così forte con la tua vita?

Più approfondivo lo studio su questa persona, più capivo che non era un eroe, non ha fatto niente di speciale nella sua vita se non viaggiare in un periodo in cui era complicato farlo. Però la storia di un uomo che non era un eroe si confrontava con la storia con la “S” maiuscola, questa è stata una delle cose che mi ha interessato maggiormente, scoprire attraverso l’esperienza della mia ricerca che la storia di un uomo qualunque, e quindi un po’ quella di tutti, si intreccia necessariamente con la storia dell’umanità. Rispetto al fatto che io compaia in questo film, che racconto me stessa mentre racconto di lui è un lavoro che è venuto pian piano, con aiuto da parte di Claudio Giapponesi, il produttore, che mi ha accompagnato e sostenuto nell’arco di tutto il film, e anche  di Giovanni Cattabriga cioè Wu Ming 2 che mi ha aiutato ad essere meno pudica, e mettere sempre più in gioco la mia storia.

A proposito della collaborazione che ha portato al prodotto finale chi sono le persone che hanno contribuito alla riuscita di questo film?

Per quanto riguarda la colonna sonora è stato fondamentale il lavoro con Rossella Faa che ha curato tutte le musiche originali e mi ha aiutato nella scelta delle musiche di repertorio, la questione delle musiche è nata dal fatto che io ho trovato tra questi oggetti di Zio Mario un taccuino dove erano elencati i suoi dischi, dischi degli anni ’20 e ’30, da li è venuta fuori l’idea di usare la sua musica per tutte le volte che racconto di lui e poi invece musiche originali composte, cantate e arrangiate da lei per tutte quelle volte in cui racconto di me.

Un altro lavoro che ha arricchito particolarmente il film è stato quello di Michela Anedda che ha curato la stop-motion che è stata proprio in grado di rendere quella che era la mia idea, cioè rendere gli oggetti protagonisti del film e farli muovere e dalle chiacchierate con lei si è arrivati ad avere questo lavoro del film molto particolare dell’animazione realizzato da lei.

È stata importantissima anche al collaborazione con Antonio Nieddu che è un montatore sassarese che ha dato il suo apporto interessante e il lavoro di Marco Ceraglia il fotografo che ha restituito attraverso la luce questo ricordo tattile che io avevo di questi oggetti sin da bambina.

Quale è stato il percorso professionale che ti ha condotto a questo tuo primo film?

Per molto tempo ho pensato che potesse essere un percorso discontinuo, solo adesso passati tanti anni posso dire, che delle scelte che non sempre sono profondamente ponderate che si fanno nella vita partecipano al tuo percorso di formazione in modo decisivo. La mia prima formazione è stata quella di educatrice e di insegnante ho fatto della formazione teatrale e della didattica gran parte della mia vita professionale, mi sono formata prima come attrice e ho lavorato prima in compagnia e in quel periodo sono andata a fare la Scuola del Cinema di Milano. Sentivo la necessità di capire di più di questo mondo che continuava ad essere molto attraente, ma anche troppo complicato, mio padre che faceva riprese di me e dei miei fratelli bambini, da bambina avevo il mio proiettore giocattolo che mi aveva regalato una mia zia, il Cinemax, passare la pellicola in un proiettore e vedere delle immagini era parte del mio periodo dei giochi quindi quando poi sono andata a fare la scuola di cinema e mi sono specializzata in montaggio, passare la pellicola nella moviola era il ricordo di una manualità che avevo avuto da bambina. Poi è arrivata la necessità di lavorare su questo materiale, gli oggetti, le foto ma soprattutto le pellicole che erano arrivate dalla Cina, che avevo fatto riversare in maniera molto artigianale quindi avevo finalmente potuto vedere cosa c’era dentro quelle pellicole, sono andata in Cina perché anche io volevo fare dei filmati e vedere i posti dove era stato zio Mario, e poi al ritorno ho iniziato a lavorarci. Pian piano la resistenza a comparire in questa storia ha iniziato a disperdersi, perché mi rendevo conto che, il fatto che questa storia fosse personale, poteva dare maggior valore al racconto proprio perché poteva riguardare anche qualcun altro.

Per il tuo lavoro di insegnate ed educatrice ti sei trovata spesso a confronto con ragazzi giovani, questo ha in qualche modo influenzato il tuo percorso e il tuo modo di raccontare e di raccontarti?

Ci sono delle strette concordanze tra il percorso che mi ha portato alla realizzazione del film e quello che è il mio lavoro di formatrice, quando faccio laboratori mi capita di avere a che fare sia con gruppi che scelgono di fare un laboratorio per realizzare un cortometraggio sia con gruppi di ragazzi ai quali invece viene imposto, per esempio le messe alla prova del tribunale dei minori o anche l’alternanza scuola lavoro, quindi con delle motivazioni meno presenti rispetto al cinema e al linguaggio cinematografico. Per me il punto non è tanto insegnare come si fa il cinema, come si fa un cortometraggio, quanto usare il cinema come strumento. È importante non tanto realizzare un bel prodotto, ma realizzare un bel processo, rendere i ragazzi consapevoli di che cosa succede se ci si mette tutti insieme. E anche cercare di mettere i ragazzi nella condizione di capire che cosa si vuole raccontare, aprirsi a questa domanda aiuta a trovare dei contenuti e delle connessioni con esperienze personali che mettono in moto nuovi contenuti. Questa è la cosa che trovo più importante nel lavoro che faccio con i ragazzi quello di aiutarli ad essere sempre curiosi e andare a cercare delle cose che si possono collegare con la loro esperienza.

Cosa pensi della situazione attuale del cinema sardo?

Negli ultimi anni non si può non dire che le cose non stiano cambiando in meglio, è vero che qui in Sardegna sta prendendo forma il cinema forse in maniera molto più solida, c’è però una cosa che secondo me manca in generale, la possibilità di  avviare di laboratori di sperimentazione “artigianale”, un po’ come era successo anche con il teatro tanto tempo fa, in cui si lascia più spazio al guizzo, alla follia, alla possibilità che ti dai se non devi vendere nessun prodotto, se non devi attenerti a nessuna regola di valutazione del tuo prodotto. Questo potrebbe portare un po’ di novità anche rispetto alle tematiche che la legge cinema può promuovere, potrebbe portare un po’ di cambiamenti. Ho la sensazione che se i più giovani, che non hanno la necessità adesso di fare un prodotto che deve essere per forza venduto, si potessero permettere di fare sperimentazione perché c’è un laboratorio che accoglie il loro mondo,  potrebbero formarsi meglio e anche i maniera meno convenzionale.

Ritornando al film e ai festival, che progetti prevedi per il futuro?

La partecipazione al festival è stata una bellissima sorpresa , perché il percorso fin dall’inizio di questo film è stato caratterizzato da persone che ci facevano tanti complimenti ma non mancavano di sottolineare quanto fosse difficile da vendere, quando poi è arrivata la selezione ai festival e  il premio Corso Salani, sono rimasta piuttosto sorpresa e mi ha sorpreso anche questa bellissima e calda accoglienza che il film ha ricevuto fino ad adesso. Anche già in Sardegna a Mogoro, siamo stati sorpresi della sala piena e della bella accoglienza. Mi ha stupito in positivo soprattutto vedere che molte linee che io avevo tracciato quasi nascoste, che servivano più a me per rendere il film perché avevo bisogno di diverse stratificazioni, visto quanto è stata lungo il processo creativo che ha portato al film, insomma che queste linee per niente evidenti siano state colte, valorizzate e riconosciute. Non so cosa mi riserva il futuro, ma sono sicura di non aver ancora finito di mettere le mani in questi bauli.

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