Site icon cagliari.vistanet.it

I racconti degli anziani. Zia Rosa Meloni: l’amore per la scuola di una bambina che non poté studiare

Zia Rosa Meloni

Zia Rosa Meloni

Zia Rosa Meloni, classe 1938, ha una memoria di ferro e tanta voglia di raccontare il passato. È terteniese di nascita ma è a Villagrande da ormai sessant’anni. Scherza: «Quello che ho fatto ieri sera, o stamattina, non me lo ricordo già, ma quello che è successo da bambina l’ho memorizzato! Mi meraviglio anche della mia memoria, ma sarà che la gente aveva fame e che erano momenti brutti, ricordo tutto.»

Studiare le piaceva, era un’alunna diligente e affamata di notizie e di sapere, purtroppo si parla di più di settanta anni fa, un periodo in cui l’istruzione – a maggior ragione in famiglie contadine – non aveva alcun peso, alcun valore.

«Pensavano che una femmina non dovesse studiare. Per gli uomini era diverso, loro sarebbero dovuti partire a fare il militare ed era necessario che sapessero leggere e scrivere.»

Gli uomini dovevano essere in grado di mandare proprie notizie alla famiglia, mentre le donne dovevano solo saper fare i propri compiti. Nient’altro era importante.

«Odiai mio padre proprio per questo. Non mi mandò a scuola.»

Il patronato scolastico aiutava chi aveva più di cinque figli affinché potessero frequentare le lezioni. Zia Rosa Meloni era la quinta figlia, avrebbe potuto usufruire dell’aiuto. Purtroppo era più importante che si impegnasse a sgravare qualche faccenda ai suoi genitori.

«Mi ricordo un fatto in particolare. Un giorno avevamo un compito in classe e ci sarebbe stato anche il direttore,» racconta, con una punta di reverenza per quella figura importante «ma io non avevo il quaderno di bella. La mia maestra mi ha proposto di portarle un po’ di crusca per le sue galline, in cambio mi avrebbe dato il quaderno. Sono andata a casa, ho preso il setaccio, “su setassu”, ho setacciato un po’ di farina e ho portato alla maestra “unu imbudu de poddine”, in cambio del quaderno di bella. Poi, quando sono tornata a casa, l’ho raccontato a mamma. Lei inizialmente mi disse che avevo fatto bene, poi mi chiese di avvicinarmi. Quando fui vicina, mi picchiò, perché non dovevo assolutamente permettermi di prendere la crusca.»

Non aveva il libro, la piccola Rosa, ma era tanto brava che trovava sempre il modo di studiare. Quando una compagnetta – una ragazzina di famiglia abbiente ma che non aveva lo stesso amore per la lettura – le prestava il suo libro per qualche giorno, Rosa non studiava solo le parti che erano state assegnate. Si spingeva oltre, leggeva e imparava molti più argomenti.

«Dovevo essere pronta anche per quando non me lo avesse prestato!» dice, in sardo.

Anche un professore tentò di convincere il padre di Rosa a mandarla a scuola. La sua capacità era chiara a tutti. Il professore propose all’uomo “su cungiau”, un posto per chiudere le bestie e farle pascolare in modo sicuro e senza che venissero controllate – era un modo per togliere questo compito a Rosa –, ma in cambio doveva mandare la ragazzina a scuola. Era un buon compromesso, alla fine, tutti ci guadagnavano.

«Ma mio padre non ha rispettato il patto. Si prese “su cungiau”, mi fece finire la terza ma in quarta mi mandò solo pochi mesi. Mi mandava allora “a pasce su giuu” (a pascolare il bue). Partendo da Tertenia, erano nove chilometri. Mi facevano male i piedi, sembrava me li affettassero. Alla fine avevo trovato un sistema per camminare un po’ meno. Mi davano ogni mattina due pezzi di pane, uno lo davo al bue in modo da addomesticarlo. E, quando me lo permetteva, mi sedevo su di lui come fosse un cavallo, per evitare di farmi male ai piedi con un tragitto così lungo.»

Racconta tutto con estrema chiarezza, con padronanza di linguaggio notevole.

«Della guerra ho chiaro in testa un ricordo. C’era un uomo, mutilato di guerra, non aveva una gamba. Quando suonarono le campane per avvisare che la guerra era finita, lui si mise per strada con una brocca di vino. Invitava tutti, diceva di essere contento di essere vivo nonostante tutto.»

Il suo sguardo si fa cupo quando si parla delle difficoltà.

«A quel tempo era così, non avevamo nulla. C’era tanta fame, eravamo semplici contadini. A volte ciò che si spreca ora mi mette dolore, ricordo il niente che si aveva allora. Per la fame che avevo!»

Un giorno, dice, stava andando a scuola, era in seconda elementare. Tra le mani, il pane che le aveva dato la mamma. C’era un ragazzo che vendeva cavolfiori in zona. Si trovarono sulla stessa strada. In un battibaleno lui le rubò quel tozzo di pane, lo fece per mangiarlo. Ma la fame era fame, quindi Rosa lo bloccò e lo picchiò pure, perlomeno un pochino, per farsi ridare quello che era uno dei pochi pasti di un giorno intero.

«Mamma faceva quattro tipi di pane,» dice «“su pane biancu”, “sa turredda”, “su civrageddu” e uno solo “de poddini” per gli animali.»

Poi, passa al periodo in cui si è sposata. Da Tertenia si trasferì a Villagrande. Si parla di circa sessanta anni fa.

Lei aveva solo vent’anni, era poco più di una bambina.

A proposito di credenze, dice fermamente: «Non ho mai creduto nelle storie che venivano raccontate. Nelle credenze, diciamo. A seconda di diversi fattori, ansia o malattia, una persona potrebbe fissarsi con certe cose, e questo è la rovina della sua famiglia.»

Suo marito Peppino cadde da cavallo, ci racconta, e pestò violentemente la testa. Ricorda il giorno e l’anno alla perfezione. Aveva già due figli, e fu un periodo difficile.

«Solo una volta ci cascai,» continua «quando Peppino ebbe quel bruttissimo incidente. Mi dicevano tutti di andare da questa signora di Nuoro. Lei non faceva le carte come alcune imbroglione che giravano per i vari paesi in cambio di soldi o cibo, ma ti sapeva svelare tutta la tua vita. Partii con una mia amica. Dovetti vendere una forma di formaggio solo per i soldi del biglietto, 700 lire andata e ritorno! Il viaggio fu duro, io ero anche incinta. Quando arrivammo, trovammo tantissima gente di zona. Questa donna faceva entrare prima chi era arrivato in pullman. “Le signore di Villagrande si presentino!” sentimmo. Allora entrammo! Sicuramente Dio mi assistette, visto che ero debole dalla fame che pativo e a causa della gravidanza, perché mi sarei potuta prendere un bello spavento! Meno male che avevamo il biglietto per rientrare, la situazione era particolare e noi le abbiamo dato tutto quello che ci ha chiesto! Mi disse di tornare una seconda volta, ma non mi ha imbrogliata di nuovo!»

Solo nel malocchio afferma di credere. Per bimbi e bestie.

«Può essere una parola detta nel momento sbagliato, senza nemmeno volerlo!»

Racconta poi del primo incontro con Peppino, che sarebbe stato poi suo marito per tanti, tantissimi anni. Con occhi luminosi, narra di un mondo che noi quasi non sappiamo nemmeno immaginare. Ci dà una chiara immagine di tempi lontani, tempi dove la vita era dura e durante i quali si ringraziava il cielo anche solo per un mestolo di minestra.

«Ora,» racconta «sono orgogliosa di aver tirato su sette figli, nonostante le difficoltà e partendo dal nulla.»

Exit mobile version