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I delitti del passato. Sergio Curreli, “Il mostro di Arbus” e l’assassinio di una coppia tedesca

La Nuova Sardegna - 3 settembre 1992

di Francesco Onnis

Il Volkswagen T2 avvistato Su Pistoccu

Piscinas, litorale di Arbus. Una delle spiagge più belle al mondo, con le sue dune di sabbia alte più di venti metri, con macchie di vegetazione in cima, a costituire l’unico sbalorditivo deserto in tutta Europa, affacciato su un mare bellissimof. Su un piccolo promontorio, conosciuto come “su pistoccu” (il biscotto), si nota un camper, un Volkswagen T2, fermo a ridosso di un vecchio rudere. Un sottoufficiale dell’Aeronautica, durante una passeggiata all’aria fresca del giorno che sorge, nota il mezzo.  C’è qualcosa di strano in quel Volkswagen. Il vetro posteriore è squarciato esattamente al centro. Il militare si avvicina per sapere se c’è bisogno di aiuto, chiama gli occupanti ma non gli risponde nessuno. Dopo una mezzora, alla caserma carabinieri di Arbus arriva una chiamata da un telefono pubblico, l’uomo che chiama dice di correre a Su pistoccu perché ci sono due cadaveri all’interno di un camper abbandonato.

Il camper ritrovato ad Arbus da una copia de La Nuova Sardegna del 3 settembre 1992

Era il 4 settembre 1982. Quello che era stato appena scoperto è tuttora uno dei più efferati delitti capitati in Sardegna negli ultimi decenni. Vittime del massacro due amanti tedeschi, Siegfried Heilmann, allora quarantunenne, bancario, e Marie Heide Jager, assistente sociale venticinquenne. Sui corpi, nudi, i segni evidenti di ferite d’arma da fuoco e, sul corpo di lei, di violenza sessuale. Il medico legale intervenuto confermò la morte violenta, causata probabilmente da un fucile a canne mozze, avvenuta nella sera del 2 settembre, 36 ore prima del ritrovamento.

Secondo le ricostruzioni, si era trattato di un agguato, culminato con una ferocia da belva. I due amanti avevano bevuto tanto da essere ubriachi, poco prima di morire avevano fatto l’amore. Secondo gli esperti balistici Siegfred era in piedi all’interno del camper e guardava fuori, attraverso il finestrino posteriore, quando era stato raggiunto da una fucilata che aveva squarciato il vetro e ucciso lui. L’assalitore era poi entrato nel camper dalla porta laterale, prendendo Marie Heide con la forza e violentandola. Dopo la violenza, la ragazza era stata con un colpo di fucile alla nuca, sparato con un asciugamano posto tra il collo di lei e l’arma.

Agli inquirenti la scena apparì in disordine come se qualcuno, dopo l’eccidio, avesse frugato a casaccio. Tra la gente il delitto fece scalpore. Una ferocia simile non si vede tutti i giorni, e per di più quelli erano gli anni dei terrificanti delitti del mostro di Firenze, un (o più di uno) folle che sorprendeva amanti infrattati e li ammazzava. In un primo momento si pensò che il mostro fosse andato in trasferta ad Arbus. Il caso finì su tutti i giornali, italiani e tedeschi, restò in primo piano nella cronaca locale per settimane. Non si esclusero comunque altre piste, come quella del delitto commissionato dalla ex moglie del bancario, gelosa e desiderosa di far pagare all’ex marito la scappatella con la giovane.

Visto che non si trovarono soldi italiani, che secondo i testimoni che li videro per ultimi i due avevano, non fu esclusa nemmeno l’aggressione a scopo di rapina, culminata con una violenza bestiale ma forse non premeditata. Le indagini dei carabinieri non portarono però a nulla. Caddero le ipotesi sul mostro di Firenze “in trasferta”, a carico della ex moglie di Heilmann non si trovò nulla, a quel punto la rapina commessa da uno di passaggio era rimasta l’unica plausibile e purtroppo anche la più difficile, perché poteva essere stato chiunque.

Erano anni in cui, molti se lo sono dimenticato, la violenza era all’ordine del giorno molto più di oggi: omicidi, ferimenti e rapine erano più facili da commettere, molte tracce che ora è possibile individuare e utilizzare prima non si poteva neanche cercarle.  La provincia di Cagliari non faceva eccezione. La droga, eroina ma non solo, scorreva a fiumi, con cifre da capogiro. I soldi facili erano, allora come oggi, un mito che bruciava molte menti. In tanti spacciavano, in molti di più rapinavano anche per farsi poche lire.

La taglia sul killer e quel pastore sospetto

Nel 1992, dieci anni dopo l’omicidio dei due amanti, dalla Germania fu addirittura messa una taglia sul killer, con tanto di ricompensa a chiunque avesse fornito informazioni utili a rintracciare i colpevoli. Non si mosse nulla. In autunno la Compagnia dei Carabinieri di Villacidro aveva arrestato un pastore di Arbus. Nel suo ovile erano state trovate armi illegalmente detenute e droga. Sergio Curreli, questo il nome dell’arrestato, era stato notato da tempo dai carabinieri. Testa calda, atteggiamento spavaldo, precedenti per droga, aveva insospettito gli investigatori per le condizioni in cui faceva vivere moglie e figlie, ai limiti dell’indigenza, mentre lui girava con auto sportive che di soldi ne valevano parecchi.

Una macchina, in particolare non era passata inosservata. Una Lancia Delta HF Integrale rossa, auto per intenditori a patto di essere ricchi per permettersela, che girava troppo spesso intorno a luoghi in cui poco dopo, casualmente, venivano commesse rapine. Il maresciallo Felice Maccioni, sardo ma con alle spalle una carriera in nord Italia, aveva fiutato che dietro il pastore potesse esserci qualcosa di più che qualche grammo di droga nell’ovile.

Molti dei fatti di cronaca che in quegli anni insanguinavano l’arburese avevano in comune la bravura con cui gli autori non lasciavano tracce. Gente del posto, aveva pensato Maccioni, ma organizzata in una banda strutturata molto bene, capace di muoversi nel modo giusto. Curreli poteva aver qualcosa a che fare con l’ambiente e ora che era in carcere i carabinieri avrebbero potuto ottenere la sua collaborazione, o quella di chi stava in stretto contatto con lui.

Maccioni seppe che l’arburese maltrattava la moglie, tanto che i servizi sociali erano dovuti intervenire più volte. Il maresciallo puntò su di lei, Daniela Muntoni, sperando che col tempo e il dovuto tatto la donna rivelasse qualcosa sul marito in cambio di protezione per lei e le figlie. Quello che alla fine venne fuori fu di più di quanto forse lo stesso Maccioni immaginava. Curreli non faceva parte della banda che in dieci anni aveva insanguinato la zona, ne era il capo.

I fatti erano avvenuti principalmente in zona, ma con varie puntate a Cagliari, in altre province, addirittura in penisola.  Assieme al pastore di Arbus si contarono gente del posto, pastori desulesi, gente del continente. C’era dentro anche un poliziotto arburese in servizio alla Questura di Oristano, che forniva informazioni sulle indagini dei colleghi e procurava armi pulite, facendo sparire quelle usate per i crimini. Ma la bomba più forte, che la Muntoni alla fine innescò, fu un’altra, inaspettata: «Sergio è l’assassino dei due tedeschi del camper, quelli uccisi al mare dieci anni fa».

La cagnetta Gelosa

Per la prima volta la vicenda cominciava ad avere dei contorni: a Daniela Muntoni disse che i turisti li aveva uccisi perché, nella strada che porta al mare, gli avevano investito la cagnetta Gelosa, che lui utilizzava per pascolare le pecore. Dall’incidente era nato un diverbio che non si era risolto con le scuse da parte dei due, ma anzi questi erano ripartiti rivolgendo al pastore male parole. Quello che la donna aveva dichiarato era parecchio, forse pure troppo. Andava accertato tutto e le indagini dovevano essere fatte coi piedi di piombo.

Se era coinvolta una banda era necessario che Curreli diventasse collaboratore di giustizia, e per farlo doveva ammettere tutti i crimini compiuti. Maccioni e il Sostituto Procuratore Pili, forti delle informazioni già in loro possesso, iniziarono a fare pressioni su Curreli, cercando di convincerlo a collaborare. Il pastore alla fine cedette, ma a rate: iniziò a raccontare nei dettagli le “attività” della banda, rapine, traffico di armi e droga, attentati a esercizi commerciali, caserme dei carabinieri, giornalisti.

Vennero confessati anche tre omicidi. Un pastore, che venne “punito” per delle violenze che aveva commesso in passato: in realtà lo volevano spaventare (era una “brulla”, uno scherzo, aveva detto Curreli), con il cappio stretto al collo alla fine ci era rimasto secco. Un tossicodipendente, che non aveva pagato delle dosi di droga, era stato ucciso a fucilate. Un pastore di Arbus, Gino Melis, era stato ucciso su commissione. La moglie, violenta e gelosa, temendo che il marito, che già era andato via di casa vendesse il patrimonio, lo aveva fatto ammazzare prima che fosse troppo tardi. Prezzo della “commissione”, due milioni di lire.

Mancava il caso dei tedeschi. Curreli, dopo aver negato a più riprese la responsabilità sul duplice omicidio, una notte mandò a chiamare il Pubblico ministero. Confessò il delitto con tutti i dettagli in quell’unico colloquio. I tedeschi col camper avevano investito la cagnetta, lui li aveva fermati per avere spiegazioni ma loro aveva risposto in malo modo, ripartendo. Curreli aveva covato la rabbia per tutta la sera, alla fine decise che i due dovevano pagare. Dopo aver trovato il camper a Su Pistoccu, aveva visto dalla luce la sagoma di Sigfried Heilmann stagliarsi contro la finestra e aveva fatto fuoco. Si era avvicinato e aveva guardato attraverso il vetro rotto, quindi aveva sparato un’altra volta volta contro l’uomo rannicchiato.

Era quindi entrato dalla porta laterale del mezzo, si era trovato davanti la ragazza nuda, immobile per lo shock, l’aveva aggredita, violentata e uccisa. Dopo aver rovistato e essere scappato coi soldi italiani, aveva buttato il fucile, un canne mozze calibro 20, in un pozzo della miniera di Ingurtosu.

La sottile differenza tra un calibro e l’altro

Ma in questa che sembrava una confessione spontanea c’erano molte cose che non andavano. Il Pm Pili e l’avvocato Tola, difensore di Curreli, già durante il colloquio avevano notato parecchie incongruenze nel racconto dell’uomo. Curreli era stato preciso nel definire i dettagli che anche i giornali avevano potuto raccontare. Sugli elementi rimasti riservati la confessione diventava invece molto meno precisa, alcuni dettagli importanti per valutare la credibilità erano completamente sbagliati.

L’esame balistico aveva ritenuto che la fucilata che aveva ucciso Siegfried fosse stata una sola, quella che aveva distrutto il vetro. Curreli parlava di due fucilate, l’ultima a bruciapelo. La descrizione dell’interno del camper era apparsa superficiale, troppo generica. Grave era sembrato che Curreli avesse sbagliato il colore dei capelli della ragazza; aveva detto fossero biondi quando erano neri a caschetto. Decisivo per ritenere inattendibile il tutto fu il calibro del fucile, che Curreli con convinzione disse e ripetè essere 20, quando il perito tecnico intervenuto nel 1982 aveva misurato come 16. Il calibro dell’arma era stato pure reso pubblico dai giornali, all’epoca del fatto.

Le perplessità aumentarono quando, la mattina dopo la notte della confessione, il pastore ritrattò tutto quanto detto sull’eccidio del camper. Confermava le dichiarazioni sulla banda, negava di avere qualche responsabilità nella morte dei tedeschi. I due giudici che dovevano valutare le indagini e l’invio a giudizio, il Giudice per le indagini preliminari e quello dell’udienza preliminare, ritennero tutte le dichiarazioni di Curreli plausibili, comprese quelle sul caso Heilmann-Jager.

Di fronte al collegio di Corte d’Assise, oltre Curreli, dovettero rispondere di vari reati altre 12 persone, fra queste anche la donna (classe 1935) mandante dell’omicidio del marito. L’avvocato Tola e le difese degli altri imputati puntarono sulle discrepanze del racconto sulla strage di Arbus per delegittimare Curreli. Durante il dibattimento si arrivò addirittura a definirlo un mitomane, un contaballe a cui piaceva spacciarsi per feroce bandito quando in realtà era poco più di un rubagalline.

Lo stesso Pm Pili, che sosteneva l’accusa, per i fatti di Arbus aveva chiesto in udienza preliminare il non luogo a procedere, in dibattimento l’assoluzione piena per non aver commesso il fatto. Man mano che il dibattimento andava avanti Curreli aveva iniziato, e avrebbe continuato a farlo in secondo grado di giudizio, a svincolarsi da tutte le accuse, sostenendo di aver partecipato agli omicidi della banda, ma senza aver mai colpito le vittime. Le difese arrivarono a chiedere che Curreli venisse definito totalmente inattendibile. Il dettaglio del calibro sbagliato durante la deposizione sul caso Heilmann-Jager era la carta migliore in mano agli avvocati. Per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni il Presidente di collegio fece disporre un nuovo esame sul calibro dell’arma che aveva ucciso i tedeschi. Se il nuovo perito avesse confermato il calibro 16, come aveva fatto il primo perito nel 1982, Curreli sarebbe diventato oggettivamente inattendibile.

La svolta

La misurazione avvenne materialmente in aula, nel silenzio dei presenti. «È un calibro 20», dichiarò il nuovo incaricato. Chi aveva sbagliato era stato il primo perito, che materialmente aveva calcolato male i millimetri della borra repertata. Qualche avvocato lasciò sfuggire un’espressione sbalordita, eloquente. Curreli paradossalmente parve contento che il perito gli desse ragione, anche se da quel momento la Corte giudicante aveva iniziato a far pendere la bilancia dalla parte della colpevolezza.

Il colpo di grazia fu dato dalle nuove conclusioni degli esperti, i quali confermarono che le fucilate che uccisero Siegfried Heilmann furono due. Curreli e altri 12 imputati furono riconosciuti colpevoli di tutti i reati contestati. In particolare per il caso dei tedeschi Curreli fu riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Le pene furono poi confermate in Appello e Cassazione. La parola fine calò su un periodo difficile della Provincia di Cagliari quando, per un attimo, si pensò che il Mostro di Firenze fosse sbarcato in Sardegna.

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