Agnelli sardi “taroccati”. La procura di Sassari apre un’inchiesta: centinaia di indagati

Pochi sanno che Mammarranca, il nome di uno dei canali che circondano la città di Cagliari deve il suo nome a una vecchia leggenda. Scopritela in queste righe.
Mammarranca (o “mamma branca”), indicava un essere fantastico che si credeva abitasse nei pozzi e nei canali e che, con braccia e unghie lunghissime, afferrasse i bambini incauti che si sporgevano. In campidanese branca, farranca, farrunca significa “branca”, “zampa” e il verbo affrancai, affraccai, affarrancai, affarruncai significa “abbrancare”, “afferrare”. Questo essere era noto anche con la denominazione di “mariavarranca” e di “mamma de funtana”, mamma del pozzo. Mammarranca era quindi un essere inventato dalle mamme che volevano spaventare i figli per evitare che giocassero vicino a luoghi pericolosi quali pozzi e canali.
Selargius, con i suoi oltre 28mila abitanti, è il decimo comune più popoloso della Sardegna e uno dei centri più importanti dell’hinterland. Le sue origini risalgono addirittura all’epoca prenuragica, in cui sono attestati diversi insediamenti, ma sul significato del suo nome, il toponimo attuale “Selargius”, le tesi sono un po’ controverse.
Come racconta il professor Massimo Pittau nel suo volume “Toponimi della Sardegna Meridionale – significato e origine” il toponimo sardo campidanese “Ceraxus” stava ad indicare che in questo centro abitavano nel Medioevo tantissimi produttori di cera. Selargius si chiamava infatti “Kerarius”, come testimoniano i carteggi del priore Raimondo di San Saturno attestati tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII.
Sempre come spiega Pittau, il toponimo si sarebbe poi evoluto in quello attuale a causa di una paretimologia, cioè l’evoluzione di un termine sulla base dell’uso popolare della lingua. La causa di questo è che Selargius divenne gradualmente uno dei centri più importanti in Sardegna per la produzione del sale. L’origine del toponimo “Selargius” viene accostata o al latino “salarios” (gli operai del sale), o “Salargia”, termine utilizzato negli elenchi delle Parrocchie della Diocesi di Cagliari con il significato di “località del sale”.
Secondo un’ultima interpretazione il termine deriverebbe dal latino “cellarium”, il tipico deposito di riserve di derrate alimentari utilizzato dai romani che abbondavano nel territorio di Selargius.
Lo sapevate? Esiste una “madre dell’ucciso” di Francesco Ciusa di marmo e si trova a Pettinengo.
In Piemonte nel Museo di Pettinengo (Biella) si trova la statua di marmo “La madre dell’ucciso” di Francesco Ciusa, opera della quale, finora, erano note le sole copie in gesso e in bronzo. Nel 1907, a Venezia, l’artista nuorese ne espose infatti una, con amplissimo consenso di critica.
“Sa mama de su mortu”, La madre dell’ucciso è stata esposta a Pettinengo al Museo delle Migrazioni, Cammini e Storie di Popoli inaugurato due anni fa in uno stabile della Regione Sardegna dato in usufrutto al circolo biellese “Su Nuraghe“, che ha pertecipato alla cura degli allestimenti.
Ignota al pubblico era finora l’esistenza di una versione in marmo, che si trovava nella villa Malpenga, nel comune di Vigliano Biellese. Risulta essere stata oggetto di una vendita (2 aprile 1942), attraverso la Galleria d’Arte di Paolo Triscornia di Ferdinando, marmi greggi segati e lavorati di Carrara, unitamente ad altre statue, per il prezzo complessivo pattuito in 68.000 lire, saldato l’8 giugno 1942.
La statua in marmo ha le stesse dimensioni delle opere in gesso e bronzo già note. È arrivata nel Biellese negli anni in cui viveva ed operava a Biella l’artista sassarese Giuseppe Biasi, con il quale Ciusa aveva stretto rapporti di amicizia.
L’opera, scolpita tra il 1906 ed il 1907, segnò il debutto di Francesco Ciusa (Nuoro, 2 luglio 1883-Cagliari, 26 febbraio 1949) alla Biennale di Venezia del 1907. La realizzazione originale fu un gesso (cm 81,5 x 58 x 72,5), acquistato nel 1939 dalla Galleria Comunale d’Arte di Cagliari. Si conoscono successive cinque versioni in bronzo: la prima, su richiesta dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, fusa subito dopo l’esposizione del 1907, si trova alla Galleria d’Arte Moderna di Roma; la seconda sembrerebbe essere stata eseguita per un museo londinese; la terza per la Galleria d’Arte Moderna di Palermo; la quarta, nel 1983, per il Palazzo Civico di Cagliari; la quinta, nel 1985, per la tomba dell’artista nella chiesa di San Carlo in Nuoro.
C’è anche un detto sulla trippa che recita: “portas pinnicas chi mancu su centu pillonis”, che vuol dire sei più contorto della trippa millefogli. La millefogli è la parte più pregiata della trippa, ma si possono usare anche le altre parti, del maiale, ma più comunemente si utilizza quella bovina. La trippa si può acquistare già pulita e bollita oppure da pulire, in questo caso va lavata accuratamente.
Ingredienti per 4 persone:
TRIPPA MISTA 400 g.
POLPA DI POMODORO 300 g.
PECORINO GRATTUGIATO 60 g.
ZAFFERANO 0,5 g.
ACQUA
CIPOLLA
MENTA
OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA
SALE
PEPE
Far rosolare in un tegame capiente un cipolla finemente tritata, quando imbiondisce, aggiungere la trippa precedentemente tagliata a listarelle, e fatela rosolare cinque minuti con le cipolle. Aggiungete la polpa di pomodoro, e lo zafferano sciolto in tre cucchiai d’acqua tiepida, sale e pepe e fate cuocere a fuoco lento per un’ora la trippa precotta. Per cuocere quella non trattata prima, occorre almeno il doppio del tempo. Appena terminata la cottura aggiungete la menta e il pecorino. In alcune zone della Sardegna poco prima di spegnere il fuoco si aggiungono i piselli fatti rosolare in padella con una cipolla tritata.
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