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Letto per voi. “L’ultimo requiem della mantide” dello scrittore quartese Marco Conti

 

Edgar Allan Poe con le sue opere ce lo ha spiegato bene: il racconto breve è un vero e proprio ideale estetico, è una Scelta precisissima. E’ il godimento dell’opera fruita in un unico momento, è quell’agrodolce ceffone che ti arriva in viso prima che tu possa anche solo decidere se provare a schivarlo o meno.

I racconti, a differenza dei romanzi – a prescindere dal genere d’appartenenza – affondano le radici sempre Dentro. Ma Dentro sul serio.  Il loro compito, e penso a Poe ma anche a Buzzati, è quello di metterti davanti ad una finestra chiusa, di aprirla all’improvviso, di mostrarti l’inferno e poi di richiudertela in faccia. Sbattendola. Forte.

E quello che hai visto per quell’istante non lo scorderai più, è già andato in fondo, giù giù, anche se non vuoi, anche se ti ha creato nausea e vertigine. Ti fa malissimo eppure – e qui sta a mio avviso il senso di tutto questo peregrinare tra le righe – ne godi. E il rumore di quegli infissi sbattuti riecheggerà nelle viscere per giorni e non potrai farci nulla: sarà un ronzio di fondo che ti accompagnerà a lungo. Perché il racconto disturba, sorprende, coinvolge, spaventa. Rimesta nella realtà, nelle angosce dell’uomo, offre simboli e allegorie che trasformano vicende quotidiane in rappresentazioni universali della condizione umana. E questa repentina “immersione” nella Verità il lettore la paga cara, con il malessere, con il disagio, con lo spavento. Sempre. Salvo poi cercare un altro racconto, un altro inferno, un’altra finestra dalla quale sbirciare ciò che – ammettiamolo – ci terrorizza. Perché alla Verità, agli angeli caduti, con masochismo letterario ci si affeziona, in un’altalena dove però spesso finiamo per confonderci: non sappiamo più se dentro di noi tendiamo ad abbracciare la vittima o il carnefice, non sappiamo più se siamo buoni o cattivi.

Proprio per questo ho pensato spesso che quello dei racconti brevi sia un genere adatto a pochi. Forse è il genere dei lettori più temerari, di quelli che con la narrazione accettano di avere un rapporto viscerale, un amplesso animalesco. Perché nei racconti ci si entra, volente o nolente, senza rete di protezione, senza anestesie. QUELLE storie diventano subito la NOSTRA storia. Non abbiamo il tempo di scegliere, di ponderare. Il romanzo, al contrario, ci lascia il tempo di prendere le distanze. Certamente ci fa sentire coinvolti, ci fa immedesimare nei personaggi, ma ci trasmette la sensazione, nel suo dipanare la storia tra le pagine, di essere più al sicuro, in un certo senso spettatori. Il racconto no, il racconto non lascia il modo e il tempo al lettore di proteggersi dalla narrazione: si diventa protagonisti fin dalla prima riga.  Il racconto – un buon racconto, beninteso – ti ha già tirato dentro prima che tu possa rendertene conto. E sono sempre dolori. Ecco perchè credo sia per pochi: i pochi che hanno il coraggio di sporcarsi davvero le mani con la vita degli altri e i pochissimi che lo nutrono, quel coraggio, per ammettere che anche la loro è lercia e fetida.

Ecco, lo scrittore quartese Marco Conti, con la sua ultima fatica letteraria “L’ultimo requiem della mantide”, tutto questo lo fa mirabilmente. E di schiaffoni ce ne da ben dodici. E come di consueto assesta i colpi senza fronzoli, in un tempo che si dilata e si restringe di continuo, che ci fa sentire in apnea fino all’ultimo rigo.

Una scrittura ficcante, volutamente poco ariosa e mai banale, costellata da riuscite sperimentazioni di carattere narrativo e citazioni ben ponderate ( e mica tutti se le possono permettere) è stata messa da Conti al servizio di dodici personaggi che a lettura ultimata è davvero difficile dimenticare. Sono uomini e donne, quelli tratteggiati da Marco Conti,  che cercano qualcuno al quale poter sussurrare il proprio dolore, qualcuno che li prenda per mano mentre nuotano in abissi profondissimi, mentre il mondo intorno a loro continua a girare indifferente. Sono uomini e donne che annaspano, che cercano la redenzione, il riscatto, mettendo sul piatto dell’orribile partita a carte che è la vita, la Speranza. A volte giocandola come unica carta, perchè è bello pensare che sia quella vincente, no? La Luce che spazza via tutto.

Ma, udite udite, tutto questo sperare probabilmente non serve a nulla. Perché come Conti ci fa ha fatto intuire anche nelle opere precedenti, il croupier in questa partita non siamo mica noi. “E’ Dio, o chi per lui”. Ed è bellissimo e bruttissimo leggerlo e “sentirlo”.

 

 

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