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Le maschere del Carnevale ogliastrino: viaggio nella tradizione della nostra terra

Il carnevale si avvicina e in alcuni ambiti iniziano i preparativi per la festa che accomuna grandi e piccini. Ma il carnevale non è solo divertimento e fantasia ma anche storia, tradizione e cultura. È ciò che caratterizza il carnevale ogliastrino che con le sue maschere orride e ancestrali si differenzia dagli altri carnevali isolani. Sono rappresentazioni di origine pre – cristiana e pre – romana che mettono in scena l’atavica lotta tra il bene e il male e ripropongono in chiave grottesca il rapporto uomo – animale e con essa i riti propiziatori alle divinità pre – cristiane.

Nel paese di Gairo “Su Maimulu”, ovvero “la mascherata” inizia il 17 gennaio, giorno in cui si accende il falò in onore di Sant’Antonio abate. Tale giorno viene denominato de “Sa primu essia” e termina il mercoledì delle Ceneri. Con la fuliggine prodotta dal fuoco di Sant’Antonio Abate le maschere si anneriscono il viso, mentre un uomo, “S’Omini e facci”, solitamente appartenente alla categoria dei macellai, si assume la responsabilità di organizzare i festeggiamenti.

L’antico Carnevale ulassese, denominato “Maimulu”, iniziava invece la notte di San Sebastiano (20 gennaio) e si concludeva il giorno di Martedì grasso. È caratterizzato dalla questua in onore del fantoccio “su Maimoni” o su “Maimolu”, la personificazione vivente del Carnevale, la maschera più rappresentativa del Carnevale ogliastrino. Ad esso sono legate altre maschere della zona: Sa Ingrastula, ovvero la madre del Carnevale,“L’ursu omini aresti”, l’orso con i guardiani “Omadoris” e in alcune annate Is Assogadoris, i pastori provvisti di lazzi di “soga”e tante altre singolari figure.

Ma analizziamo alcune delle maschere tipiche della nostra zona.        

Su “Maimoni”, la variante ogliastrina del  Mamuthone di Mamoiada, è nella mitologia sarda una divinità legata alle acque e alla pioggia, invocata da pastori e contadini.

“Maimone Maimone abbacheretsu laòre abbacheretsu siccau, Maimonelaudau”! (Maimone, Maimone chiede acqua il frumento, chiede acqua il seccato, Maimone lodato), questa era la preghiera con la quale veniva invocato dai nostri avi. Il padre dell’archeologia sarda Giovanni Lilliu descrive su Maimone come un essere demoniaco, invocato come “facilitatore di pioggia” mentre Max Leopold Wagner, studioso tedesco della lingua sarda, nel suo Dizionario etimologico sardo traduce la parola “Maimone” con “spauracchio” e afferma che inizialmente il termine significava “scimmia” e che in seguito avrebbe definito una bestia immaginaria.

La maschera chiamata su “Maimolu” è la personificazione vivente del Carnevale e si presentava come un individuo animalesco, ricoperto di pelli di capra nera e con un copricapo di pelle scura. Sa Ingrastula è invece la madre del Carnevale e si presenta come una donna col volto dipinto di nero e avvolta da un lungo scialle che nel suo peregrinare tra la folla “frastimmada”, cioè augura il male. Un’altra figura femminile è “Sa Martinicca”, ovvero la “donna – scimmia” che si differenzia dalle altre maschere poiché appare positiva e scherzosa. “Sa filadora” è una signora vestita di nero che portava una rocca e un fuso. Il filo era considerato il simbolo della vita e per questo motivo la maschera si avvicinava alle persone ricche per ricordar loro che per quanto fossero benestanti dovevano seguire anch’essi lo stesso destino umano.

La sfilata del Carnevale veniva aperta da “su cuadderi”, una figura che camminando a cavalcioni sul suo bastone che portava sulla punta un teschio, annunciava il passaggio del corteo delle maschere, “is maimolus”. Nel corteo troviamo altre figure: “is damas” e “caballeris”, vestite in maniera appariscente e circondate da servi chiamati “is istravaccius”, che si presentano invece con un aspetto umile. Ad esse seguono i filatori di lana, “is filadoris” e “is bendidoris” che provocavano fracasso facendo battere vecchie latte, coperchi e mestoli.

S’ursu omini aresti, a Gairo s’urtzu ballabeni, il cui nome deriva dall’incitamento “Urtzu, ballabeni” (Urtzu, balla bene!), è invece l’emblema del male, figura malvagia che attacca chiunque gli si pari di fronte. Rappresenta la natura selvaggia che d’inverno aggrediva le comunità. Per questo motivo veniva legato alla catena di un aratro e sorvegliato da figure benigne: un trio di “peddinciones” vestiti con pelli di capra e collari, e dagli “omadoris” o “buccinus” (a Gairo), i guardiani che lo costringono a seguire un ritmo regolare dettato dai campanacci che portano sul dorso. Il ritmo di danza regolare da cui trae origine il nome “Urtzu ballabeni” era un incitamento, un invito ad una natura che doveva danzare al ritmo voluto dalle comunità.

S’Urzu ballabeni al termine della sfilata veniva ucciso. La sua morte simboleggiava la fine dell’inverno e quindi del periodo di stenti e di sofferenza. Dopo la sua morte iniziavano i festeggiamenti, interrotti da una nuova rinascita che simboleggiava il ciclo delle stagioni, il ritorno di un nuovo inverno aggressivo che attaccava nuovamente le comunità.

L’orso non appartiene alla fauna tipica della Sardegna e, per questo motivo, alcuni pensano che si tratti di un animale simbolico, frutto delle reminiscenze delle popolazioni neolitiche, altri invece suppongono che la parola “Urtzu” non abbia semplicemente alcun legame con la parola orso.

Altre figure del Carnevale ogliastrino sono “ispoddinaios”, maschere che si trovano in coda alla sfilata e che distribuiscono crusca agli spettatori e “su dottori”, la figura più temuta del carnevale, che si presentava in camice bianco e che fingeva di infastidire le donne. La manifestazione si concludeva il martedì grasso, giorno in cui veniva arso tra le fiamme il fantoccio “Martisberri”.

 

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