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Ciò che rimane del liceo, dopo la maturità. Intervista a Stefano Riboldi, universitario ogliastrino

Quello della maturità è un periodo decisamente particolare, ricco di ansie, impegni, pensieri, argomenti da ripassare e capitoli da studiare.

Alcuni lo ricordano con timore, memori delle ore trascorse in preda all’agitazione e del sudore freddo sulla fronte prima di ogni prova. Altri invece ne parlano con spavalderia, convinti che fosse solo il primo di una lunga serie di difficili ostacoli da oltrepassare, un’ottima palestra per le successive prove offerte dalla vita.

Ma come cambia la visione del liceo, dopo la maturità? Al termine del percorso di studi, si è veramente pronti e maturi per affrontare la realtà che ci si para davanti?

Secondo Stefano Riboldi, classe 1996, nato a Bari Sardo e oggi universitario presso la Facoltà di comunicazione, media e pubblicità alla IULM di Milano, la maturità è “sopravvalutata”, mentre il liceo un “bildungsroman” (termine che indica un romanzo che si basa sulle esperienze formative del protagonista, che progressivamente matura la propria persona).

«Ho studiato al liceo classico di Lanusei. È stato una grande prova per me: mi trovavo davanti una serie di materie mai affrontate prima e tante persone nuove  da conoscere – racconta Stefano – Oggi dico che il liceo è stato per me un bildungsroman, ma trovo che la maturità sia sopravvalutata. Principalmente perché l’esame viene vissuto malissimo: credi sia la cosa peggiore che affronterai nel corso di tutta la tua vita, cerchi di mettercela tutta per non fallire o fare brutte figure e poi alla fine ti accorgi che in realtà è stato tutto molto semplice, indolore. In troppi credono che il voto di maturità definisca loro in quanto persone, che più alto sarà, più saranno viste come “persone valide”. Ma non è così. Una volta all’università, il voto di maturità sarà solo un argomento da tirare fuori durante le conversazioni più noiose di fronte ad un caffè». 

Tra i probabili fautori di questa percezione del voto di maturità, vi è in generale anche il sistema di valutazione liceale, reo di alimentare competizioni improduttive tra studenti.

«La differenza tra la valutazione liceale e quella universitaria – secondo Stefano – sta nel rapporto che i professori del liceo hanno la possibilità di instaurare coi propri studenti, cosa della quale i docenti universitari sono spesso privati vista la popolosità delle classi. Questo ha strettamente a che fare con il concetto di meritocrazia. Per fare un esempio, io sono sempre stato uno studente piuttosto diligente e questa mia qualità ha indubbiamente contribuito ad accattivarmi le simpatie dei prof. Specie al triennio, ho però acquisito un terribile difetto: studiavo solo le materie che riuscivano a stimolarmi ed interessarmi, così la mia media nelle materie scientifiche è crollata, com’era normale che fosse».

«Ogni tanto – racconta Stefano – mi capitava di fare un compito terribile per poi, con mia somma sorpresa, ricevere come valutazione un “votone”. Non era frequente, però mi infastidiva parecchio perché mi metteva in imbarazzo e minava il rapporto coi miei compagni. So che può sembrare assurdo per i professori che probabilmente stanno leggendo questa intervista, ma è proprio così: volontariamente o meno – dichiara Stefano rivolgendosi a dei professori ideali – alcuni insegnanti tendono ad identificare un alunno con un voto e a non farlo mai schiodare da quello standard che voi stessi gli avete imposto. Come se non avesse l’opportunità di fare meglio o peggio. Io ovviamente sono grato a chiunque mi abbia sempre considerato un tipo da otto, però nella vita vera quando fai schifo, fai schifo. Questo l’ho compreso all’Università, dove il tuo studio viene giudicato da persone che non sanno niente di te». 

Tali criticità non minano però l’idea che il personale percorso scolastico intrapreso da Stefano, sia stato utile nella costruzione della propria personalità e nelle scelte formative successive.

«Sin dal primo anno del liceo, ho avuto una professoressa di italiano che mi ha incoraggiato a scrivere e questo, oltre a farmi acquisire autostima, mi ha anche indotto ad affinare la tecnica in modo da poterla sempre sorprendere, compito dopo compito. Ci sono lezioni del liceo che mi sono rimaste impresse e che ricordo tuttora con piacere. La scelta del classico si è rivelata totalmente necessaria; quando abbiamo iniziato a studiare la letteratura greca e latina, ho trovato conforto nei versi, in prosa o poesia, di poeti vissuti millenni prima di me ma che avevano provato le stesse mie gioie e gli stessi miei dolori. La scuola superiore cade nel periodo di vita più scombussolante per un essere umano: l’adolescenza. A quell’età ancora non hai capito chi sei, chi vorrai essere, perciò una tale istituzione ha, nel bene o nel male, un’influenza mastodontica sulla tua crescita» dichiara Stefano.

«Sono critico nei confronti di alcuni aspetti del sistema liceale ma, basandomi sulla mia esperienza, posso dire che ciò che è buono, alla fine, sembra trionfare sempre – conclude Riboldi – C’è stato un periodo all’ultimo anno in cui mi sono tremendamente innamorato di un ragazzo che mi ha spezzato il cuore e, siccome non potevo parlarne coi miei dato che all’epoca ancora non sapevano di me, un giorno ho preso coraggio e mi sono confidato con una mia professoressa. So che può sembrare assurdo, ma da quel momento abbiamo sancito l’indissolubilità di un rapporto che continua ad esistere tutt’oggi. So anche che la maggior parte degli esseri umani stenta ad approvare una tale confidenza tra maestro e discepolo, eppure io credo che stia proprio qui il lato più fenomenale del liceo: la possibilità di crescere guidato da una persona di cui sai di poterti fidare ma che è comunque sempre pronta a farti notare quando sbagli e ad aiutarti a correggere i tuoi errori».

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