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Accadde oggi: il sequestro Caggiari e la strage di Osposidda, una battaglia senza vincitori

Il 18 gennaio 1985 è una delle pagine più tristi della storia dei sequestri in Sardegna, un rapimento che vide la liberazione quasi immediata dell’ostaggio, ma che ebbe un epilogo drammatico: cinque vittime. I corpi dei sequestratori, uccisi nei monti fra Orgosolo e Oliena dopo la liberazione dell’ostaggio, furono caricati in un camion e trasportati fra la sirene spiegate della Polizia. Un gesto che fu interpretato da parte della comunità come una macabra celebrazione di vittoria.

Una ferita mai rimarginata, e una versione dei fatti ufficiale che non convinse gran parte la comunità. Il trasporto dei cadaveri dei sequestratori verso l’obitorio di Nuoro, con le sirene spiegate, somigliava per tanti ai festeggiamenti per una battuta di caccia fortunata.

Tutto ebbe inizio il giorno prima, con il sequestro dell’imprenditore olianese Tonino Caggiari. Un personaggio molto noto e ben voluto ad Oliena, tanto che molti suoi compaesani diedero subito vita a gruppi spontanei per liberare l’uomo. La loro conoscenza delle montagne del Supramonte fu determinante: il 18 un gruppo di volontari civili intercettò i rapitori, rallentati dal fatto che dovevano muoversi con l’ostaggio e, dopo un breve conflitto a fuoco durante il quale fu ferito un giovane volontario, Caggiari fu liberato dai rapitori per tentare una fuga più agevole.

Ormai braccati dalla Polizia, i banditi decisero di non arrendersi alla Giustizia, e fecero fuoco, così raccontò il questore Angelo Torricelli, sparando e lanciando bombe a mano. A Osposidda, un canalone formato dai monti fra Oliena e Orgosolo, iniziò una vera e propria battaglia, che durò tre ore.
Il primo a cadere fu il bandito orgolese Giuseppe Mesina, latitante di 46 anni. Vincenzo Marongiu, sovrintendente di Polizia, fu invece centrato in petto da due colpi di fucile, morendo sotto gli occhi dei colleghi. Forze dell’ordine e rapitori si sparavano a pochi metri di distanza. E così l’ispettore Antonio Serra e Giovanni Corraine, un altro rapitore orgolese, si puntarono le armi l’uno contro l’altro, facendo fuoco nello stesso momento. Serra rimase ferito, mentre Corraine morì. Dietro il cespuglio di erica dal quale era sbucato, fu rinvenuto anche il corpo di un terzo bandito, Salvatore Fais di Santu Lussurgiu, da poco evaso dal carcere di Oristano. Fais fu raggiunto mortalmente dai numerosi proiettili che quel giorno nefasto viaggiavano nell’aria fredda di Osposidda.

Così come Fais, anche il quarto bandito era evaso dal carcere: Nicolò Floris era l’ultimo rimasto vivo, ormai braccato e circondato da oltre cento uomini della Polizia. Stando alla versione data dalle forze dell’ordine alla stampa, Floris rifiutò di consegnarsi ai rappresentanti dello Stato, e sparò. La Polizia rispose lasciando a terra Floris, trentaduenne di Orgosolo, crivellato di colpi. Una versione che nel paese di Floris fu sempre messa in dubbio, poco convinti del fatto che il loro compaesano, evidentemente spacciato e la cui cattura era ormai certa, non avesse deciso di arrendersi.

La “guerra” era finita, cinque corpi in terra, il sangue fra il nevischio di una giornata da lupi ad Osposidda, e l’odore di cordite nell’aria. I corpi furono caricati su un camion della Polizia, e trasportati all’obitorio di Nuoro fra le sirene spiegate, un gesto che Orgosolo fu interpretato come una schiaffo alla dignità dei loro compaesani morti. Sembrava, per molti, la celebrazione di un macabro trionfo, in una battaglia che non può avere dei vincitori. «Se la sono cercata», disse l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. Meno brusco fu invece il Prefetto Mulas che disse: “Le sirene erano spiegate perché stavano scortando il camion, ma una cosa è certa: quel giorno è stata una tragedia e nessuno ha mai pensato di celebrarla come una vittoria».

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