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“Fai da bravo o chiamo Mommotti”. Storia dell’orco che terrorizzava i più piccoli e di altre creature della tradizione sarda

Chissà quante volte in quanti ce lo saremo sentiti dire da bambini. In Sardegna Mommotti (o Tziu Bobbotti) è sicuramente la figura più evocata dai genitori come deterrente per convincere i bambini a non fare da cattivi.

 

«Guarda che chiamo Mommotti», era l’ammonimento dei grandi, e subito le piccole pesti mettevano da parte i loro progetti di compiere qualche marachella. Durante l’infanzia, Mommotti è sempre stato l’Uomo Nero per eccellenza, una specie di orco che rapiva i bambini cattivi. Ognuno se lo è immaginato secondo la sua fantasia, un uomo con la barba lunga e dall’aspetto tetro, o con un lungo mantello nero e il volto sempre in ombra, magari nascosto sotto il letto, o ancora con una maschera. Ma l’effetto era sempre quello e tutti i bambini erano terrorizzati dall’evetualità di cadere nelle sue grinfie o di essere rapiti, se non avessero obbedito ai propri genitori.

 

Diverse le teorie sull’origine del nome. La più attendibile sembra essere quella che considera il termine Mommotti come una storpiatura Mohammed, un corsaro arabo dalla pelle scura che in epoca giudicale compiva razzie nei villaggi della Sardegna, e le cui principali vittime erano appunto i bambini, rapiti dal feroce pirata. Un’altra versione fa risalire questa inquietante figura alla famiglia Marotta, che in epoca napoleonica si rese responsabile di una serie di efferati reati fra i quali, appunto, rapimenti.

 

Ma Mommotti non è l’unica figura tradizionale sarda legata al mondo della paura. Una pari popolarità, aumentata negli ultimi anni dall’omonimo libro di Michela Murgia, è quella di cui gode S’Accabadora. È sicuramente la figura della cultura sarda più legata al tema della morte.

Si narra infatti che si trattasse di un personaggio femminile, che entrava nella stanza dei moribondi con il volto coperto da un velo scuro per porre fine alle sofferenze degli anziani ormai prossimi alla morte con un colpo in fronte sferrato con un martello di legno, oppure soffocandoli con il cuscino. Una sorta di eutanasia ante-litteram. La figura dell’Accabadora ha però poco di fantastico; diverse sono le testimonianze storiche della sua reale esistenza nei primi anni del novecento

 

Nella fantasia e nella tradizione nostrana, un posto importante è quello occupato da piccole fate incantatrici, con una voce suadente chiamate Janas. Se in alcune zone dell’Isola vengono considerate delle creature benefiche, in altre venivano considerate capaci di ogni maleficio. Nella zona di Tonara ad esempio, si racconta che queste piccole fate erano solite attirare i viandanti stendendo un velo bianco davanti alle loro caverne. I malcapitati venivano poi catturati dai nani e condotti dalla Jana che succhiava loro il sangue. Il loro nome deriverebbe da quello del dio Giano, che nel culto pagano era rappresentato come un dio bifronte guardiano dell’al di là, ma Sa Gianna è anche il nome delle porte che univano il mondo dei vivi e quello dei morti.

 

Ai tempi della peste, si diffuse invece in Sardegna in epoca medievale, insieme all’epidemia, la figura de Sa musca macedda. Era un insetto mostruoso, aveva le sembianze di una mosca ma le dimensioni di una pecora, e con un lungo pungiglione. Queste creature dall’aspetto terrificante e dalla puntura mortale, secondo la leggenda, furono rinchiuse dentro a dei forzieri e sepolte, a guardia dei tesori nascosti sotto terra.

 

Leggende, ma non solo, i cui racconti sono stati tramandati di padre in figlio per secoli, secondo una tradizione il più delle volte orale, e che ancora oggi incutono un certo timore.