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“Sindaca”, “assessora” un significato oltre il significante. Intervista all’attivista ogliastrina Loredana Rosa

Il dibattito sull’attribuzione di un genere femminile anche ai sostantivi che attualmente possiedono solo una “versione” maschile, è ancora molto acceso non solo a livello istituzionale, quanto soprattutto all’interno delle varie comunità.

Anche in Ogliastra c’è chi fortemente si batte affinché non si storca il naso di fronte a termini quali “sindaca” o “assessora”, ma si vada oltre l’apparente cacofonia di tali nuove parole, riconoscendone quindi il diritto – e il dovere – di esistere.

È il caso di Loredana Rosa, grecista, docente di Italiano per Stranieri L2, presidente dell’associazione Voltalacarta, attivista per le pari opportunità, una voce esperta a volte controcorrente in mezzo alle tante che, nonostante il dibattito riguardi una disciplina ben precisa – la linguistica – si sentono comunque in dovere di sentenziare in merito, convinte che il solo diritto di parola conceda un altrettanto diritto di veto.

“Questo dibattito è inserito in un discorso decisamente più ampio, riguardante le pari opportunità – spiega Loredana, attraverso un’intervista a una voce, quasi una lectio magistralis che vuole riportare la discussione su binari più adatti – ma nonostante la serietà dell’argomento – prosegue – spesso è facile vederlo banalizzato, a volte anche con argomentazioni del tipo ‘quindi il mio dentista dovrei chiamarlo dentisto?’, argomenti che ignorano che in realtà -ista è un suffisso greco invariabile; ma se avvii il discorso da un punto di vista grammaticale, vieni subito identificata come la ‘maestrina’, termine fra l’altro profondamente sessista in quanto poche volte si sente dare del ‘maestrino’ a un uomo”.

Quella contro il sessismo, il maschilismo, il machismo e in questo caso a favore della rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio, è una battaglia che Loredana Rosa conduce quotidianamente anche per indole personale; una lotta supportata da una solida preparazione accademica, arricchita da una specializzazione post lauream in Linguaggio e Comunicazione e da un ulteriore master in Comunicazione pubblica.

«Io credo che le parole non siano semplici strumenti di comunicazione – prosegue – ma sono condizioni indispensabili per poter effettivamente pensare. Cecilia Robustelli, studiosa di Linguistica dell’Accademia della Crusca, spiega che ‘ciò che non si dice, non esiste’, e su questa teoria bisognerebbe basarsi per un ritorno alla consapevolezza delle parole. Il modo in cui il linguaggio rappresenta la realtà influisce direttamente sulla realtà stessa. La lingua contribuisce quindi ad accelerare le innovazioni, in questo caso la sempre maggiore emancipazione femminile, per quanto in Italia siamo decisamente più indietro rispetto a molte altre Nazioni del mondo».

La consapevolezza sull’uso delle parole è un tema che attraverso la sua associazione Voltalacarta, Loredana Rosa ha ampiamente analizzato anche grazie alla video inchiesta “Voci di un verbo plurale”, realizzata con i ragazzi dei licei di Lanusei e Tortolì.

«In una parte del video ho proposto un “gioco con le parole” – spiega – dando agli studenti un termine maschile e chiedendo loro di declinarlo al femminile: fin quando i termini erano ‘infermiere’, ‘panettiere’ o ‘parrucchiere’, tutto procedeva per il meglio, ma già con ‘ingegnere’ sono iniziate le difficoltà, ancor più con termini fortemente maschilisti quali ‘don Giovanni’ che non ha corrispondenze altrettanto delicate al femminile. Un sistema che permette una certa maturazione e consapevolezza sulle parole, con la speranza che si giunga alla stessa disinvoltura dei numerosi nuovi termini come ‘linkare’ o ‘taggare’».

Un dibattito, quello sulla rappresentazione della donna attraverso il linguaggio, fortemente infuocato in seguito alla presa di posizione – a favore – della Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini. Infuocato perché non poche sono le banalizzazioni attuate in merito e i conseguenti insulti attraverso i quali la Presidente è stata apostrofata con veemenza, non tanto però inerenti alla tematica linguistica, quanto al suo essere donna.

«Probabilmente, se Laura Boldrini fosse stata un uomo, tutto questo accanimento non ci sarebbe stato. E lo dimostra un caso come quello di Justin Trudeau, Primo ministro del Canada: egli, nonostante più volte si sia dichiarato un femminista che educa i suoi figli nell’ottica del femminismo, ovvero delle pari opportunità tra uomo e donna, non riceve insulti e minacce come quelle di cui è stata oggetto la nostra Presidente della Camera».  Dal punto di vista legislativo in Sardegna siamo comunque decisamente più avanti rispetto allo stagnante e molto spesso becero dibattito all’interno delle comunità.

«Abbiamo una legge del 2016 all’interno della quale è presente un articolo che finalmente parla di sviluppo delle politiche di genere e revisione del linguaggio amministrativo verso la ‘femminizzazione‘ di termini maschili, il che dimostra che, dal punto di vista istituzionale, è stato fatto un importante passo avanti».  Nonostante ciò, vi sono ancora donne con cariche importanti che vogliono essere definite al maschile (prefetto, sindaco, ministro, segretario) perché sentono come svilente la versione al femminile.

«Prese di posizione simili – spiega Loredana – derivano forse da una tendenza presente all’incirca fino agli anni ’80, la quale identificava l’emancipazione femminile come sinonimo di parità intesa però in quanto omologazione al mondo maschile».

Un caso particolare, in Sardegna, è quello di Chiara Vigo, colei che è stata definita la Sacerdotessa del Bisso, ma che preferisce essere chiamata Maestro del Bisso. «Pur comprendendo le ragioni che inducono Chiara Vigo a scegliere il maschile – dice al proposito Loredana – io personalmente propendo comunque a definirla Maestra, sulle orme della lezione di Sergio Lepri, storico ex direttore dell’Ansa, che in anticipo sui tempi e controcorrente ha contribuito moltissimo a contrastare il sessismo nella nostra lingua, anche quando le stesso donne a cui si riferiva non gradivano la declinazione al femminile della propria carica».

La lenta accettazione dei nuovi termini declinati al femminile, non consiste quindi in un capriccio proveniente da una sfera femminista della società che non si rende conto che “ci sono cose più importanti alle quali pensare”, come spesso viene ribadito. Consiste invece in un riconoscimento a tutto tondo del valore che le donne hanno all’interno delle comunità, delle quali sono parte integrante, e della conseguente legittimità della declinazione femminile dei loro mestieri, professioni, cariche amministrative o politiche. Della loro quindi completa integrazione nella società.

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