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Un amore, quello per lettura e scrittura, lungo una vita: Giulio Cesare Mameli si racconta

Giulio Cesare Mameli

Giulio Cesare Mameli

Giulio Cesare Mameli

Giulio Cesare Mameli, con il suo umorismo e la sua saggezza, è capace di restare impresso nella mente e nel cuore di chiunque lo conosca. Giornalista ilbonese 67enne, scrittore di romanzi e di commedie, conduttore di programmi in lingua sarda per Radio Stella, è anche colonna portante del Caffè Letterario arbataxino –  punto d’incontro per gli scrittori ogliastrini guidato da Margherita Musella – e per chiunque in zona ami il teatro o i romanzi che odorano di Sardegna, di tradizione, di passato e di presente. Ironizza, con uno spirito che lascia senza fiato, su tutto, sbeffeggiando persino la morte e la malattia.

È lampante, la sua voglia di raccontare. Di raccontare del mondo e della nostra bellissima isola. Di raccontare di sé, ma senza mai piangersi addosso. Di raccontare di tradizioni e di leggende e di superstizioni. È inoltre esempio di disponibilità, di gentilezza.

Giornalista pubblicista, studioso di tradizioni popolari, autore di commedie e di romanzi. Collabora anche con l’emittente radiofonica “Radio Stella” a Tortolì per la quale ha curato rubriche in lingua sarda. Come fa a conciliare tutto?

Oh, si concilia, si concilia. Tu prova a immaginare una persona in carriera che ha quasi raggiunto il massimo grado come sottufficiale dei Carabinieri e, all’improvviso, a quarant’anni viene collocata in pensione d’autorità perché affetta da sclerosi multipla. Che fai? Non potevo sdraiarmi sul divano ad aspettare, per cui ho deciso di fare ciò che avevo sempre sognato di fare sin da ragazzo, cioè leggere, scrivere e fare teatro. Infatti, per diversi anni ho collaborato con l’Associazione Anfiteatro Sud di Tortolì, almeno finché la salute me l’ha permesso, poi ho dovuto smettere e dedicarmi solo alla scrittura. Ma io sono un operatore di teatro prestato alla letteratura, per necessità, ma sono soprattutto un operatore di teatro. Tutto il resto, le trasmissioni radiofoniche, la tessera di giornalista, le centinaia di fiabe radiofoniche in lingua sarda messe in onda nel corso degli anni sull’emittente Radiostella con i bambini delle scuole elementari e medie, anche i libri sulle tradizioni popolari, le raccolte di proverbi e di racconti sardi, l’ho fatto soprattutto affinché i giovani non dimentichino le nostre radici.

L’ispirazione arriva all’improvviso, secondo lei?

L’ispirazione è come il Natale, “quando arriva, arriva” diceva una pubblicità, ma nel mio caso non c’è da disperarsi, perché può capitare di svegliarmi già con un’idea in testa, oppure di fare un sogno e appena sveglio non vedo l’ora di mettere nero su bianco un racconto. Ma se non ci sono idee nuove all’orizzonte, non c’è alcun problema, intanto la mia giornata è molto lenta e non inizia mai prima delle 15 pomeridiane, perché le mie ore più prolifiche sono quelle notturne, tra la mezzanotte e le cinque del mattino, per cui la mattina dormo per necessità fisiologica. Ma se non mi viene un’idea nuova, non ho problemi, intanto correggo ciò che ho fatto anche mesi prima. Il teatro non ha mai fretta di arrivare da alcuna parte, anzi, il teatro ha bisogno di lunghi periodi di pausa per riflettere. Qualsiasi opera, dopo la stesura, va lasciata riposare per almeno tre mesi, a volte anche molto di più. In gergo si dice che l’opera va lasciata asciugare, poi va ripresa in mano e rivista, corretta, tagliata, integrata, trasformata. Non ci si annoia mai.

I personaggi che nascono dalla sua penna sono totalmente frutto della fantasia oppure c’è un pizzico di realtà?

Credo fermamente che anche la fantasia abbia come principio un punto di riferimento reale, altrimenti stiamo parlando del nulla. Sin da ragazzo ho sempre seguito le commedie che davano in televisione, tutte quelle che davano settimanalmente, le commedie di Pirandello, di Goldoni, ma soprattutto quelle del grande Eduardo De Filippo. Quando a casa mia entrò la televisione, nel 1964, avevo quattordici anni, non vedevo l’ora che arrivasse il venerdì, perché in seconda serata davano le commedie. Erano la mia passione. Io ero già a letto e mi rialzavo per vedere le commedie. Naturalmente tenevo il volume bassissimo affinché i miei non se ne accorgessero, però mio padre aveva l’udito fine e ogni tanto mi urlava dal suo letto: «Spegni la televisione e vai a dormire!» Allora abbassavo completamente il volume e continuavo a seguire la commedia muta, dato che il teatro è soprattutto gestualità. Figurati che seguivo anche le commedie di Gilberto Govi, colui che fondò il teatro dialettale genovese, che parlava appunto in genovese e di cui non capivo un piffero, ma mi appassionava la sua gestualità e capivo comunque ciò che avveniva in scena. Poi sono stato alcuni anni a Genova e il teatro di Govi me lo sono goduto, ma allora capivo già anche il dialetto genovese. Pochi anni fa ho rivisto una delle ultime esibizioni di Paola Borboni, quasi centenaria, nella commedia di Pirandello “Così è se vi pare”. Fino all’entrata in scena era sorretta da due persone, poi entrava in scena appoggiandosi a due bastoni canadesi. A ogni entrata e uscita di scena un tripudio di applausi; a me che la ricordavo sulle scene ai tempi d’oro, sono scese le lacrime!

Ci sono scrittori che hanno bisogno di rituali, affinché la mente parta alla creazione di nuovi mondi. C’è chi scrive solo in primavera, chi nel proprio studio, chi la notte a lume di candela. Lei ha bisogno di un particolare posto, tempo, clima?

L’unico rituale che mi consento è un caffè al bar vicino a casa mia, una chiacchierata con gli anziani e poi il giornale. Non inizio mai a fare niente se prima non do uno sguardo alle notizie, specialmente ora che, insieme a due collaboratori (Eleonora Vacca e Ivan Marongiu), sto conducendo il notiziario e l’approfondimento in sardo due volte al giorno per le due emittenti di Tortolì. Ma altri rituali particolari non ne ho mai seguito, anzi, fino all’anno scorso c’era quello della sigaretta, ma ora ho smesso. Per il resto preferisco scrivere la notte, non solo perché soffro d’insonnia, ma perché non sento alcun rumore che possa distrarmi, telefono, campanelli e nemmeno il traffico stradale dato che abito sulla via principale.

La scrittura era un sogno fin da quando era bambino o è una passione nata da adulto?

Mi viene da sorridere, nel risponderti, perché da bambino la mia passione più grande era la lettura, leggevo tutto ciò che trovavo, anche un frammento di giornale per terra, magari non potevo raccoglierlo, però mi chinavo e lo leggevo. A casa mia, gli unici libri che c’erano quando ero bambino erano “I promessi Sposi”, “I miserabili”, “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”. Leggevo di nascosto da mio padre i libretti di modas e le poesie sarde pubblicate da tziu Antoni Cuccu di San Vito; non solo li divorai velocemente, ma imparai anche a memoria alcune modas di Bernardo Zizi, di cui ricordo in particolare “Sa rùndine” che era dedicata ai sardi che emigravano come le rondini, “Su Crucifiissu” e “Su Tirsu”. Quando poi, dopo la quinta elementare, entrai per alcuni anni in seminario, beh, lì sì che potei sfogarmi a leggere, soprattutto romanzi, ma anche vite di santi. Credo che la scrittura sia una conseguenza naturale di chi ha letto molto, diversamente non si spiega. Qualche tempo fa lessi un articolo dove un giornalista, in maniera molto ironica, diceva che tra un po’ ci sarebbero stati più scrittori di libri che lettori. Beh, io credo che nessuno abbia mai scritto più di quanto non abbia letto.

Cosa prova quando le sue idee si concretizzano sotto forma di testo?  Cosa sente quando la sua creatura è ufficialmente pronta a prendere il volo?

L’ho scritto nell’introduzione al romanzo Matacìli che a volte a uno scrittore capita di cominciare la stesura di un testo o di un racconto, senza conoscere né la trama e né i personaggi, scoprendo alla fine che entrambe le cose erano nella sua mente da anni ed erano proprio quelle le cose che voleva scrivere. Quando poi vedi l’opera finita, che sia un romanzo, una commedia o una raccolta, beh, ti viene un po’ di tristezza perché sai che è arrivato il momento di separarti da ciò che è come un figlio per te e quindi non potrai più giocare con lui, perché oramai vive la propria vita e non ha più bisogno di te. Devi solo sperare che gli altri apprezzino il lavoro che hai fatto e augurarti che abbia una vita fortunata, lo stesso augurio che daresti a un figlio!  La gente non può tenere conto di quante notti hai lavorato su quel testo, non può sapere quante volte hai riscritto quel capitolo, quante volte ti sei rialzato dal letto per cambiare una battuta a un personaggio. La gente ha in mano l’opera finita, tutto il resto appartiene a te, anche qualche lacrimuccia che hai versato immedesimandoti in qualche personaggio.

Che rapporto ha con i lettori?

Se dipendesse da me, li interpellerei uno per uno e scriverei le cose che i lettori gradiscono, ma non si può fare. Però, devo dire la verità, soprattutto per le commedie in sardo ho ricevuto tanti attestati di stima e incoraggiamenti a continuare a scrivere, perché la letteratura sarda è abbastanza misera di testi, almeno lo era fino al secolo scorso.

Quali sono i suoi riferimenti letterari?

Se fosse possibile ti direi Grazia Fallaci (Grazia Deledda-Oriana Fallaci), perché la nostra premio Nobel è stata la mia guida ideale sin dalla mia infanzia, con le novelle e i suoi romanzi, ma da adulto non potevo non leggere, anzi divorare, tutti i testi di Oriana. Ma credo di avere rubato qualcosa anche a Emilio Salgari, soprattutto nell’adolescenza, poi, ovviamente i classici, come Manzoni. Degli autori moderni metto in primo piano soprattutto Salvatore Niffoi e Flavio Soriga; leggo anche gli altri, ma mi incuriosiscono poco. Se poi parliamo di teatro, ci vorrebbe troppo tempo, a cominciare da Shakespeare, Pirandello, Goldoni, Edoardo De Filippo, ma soprattutto gli autori nostrani, il canonico Luisu Matta di Gergei con “Sa Coia ‘e Pitanu”, Mons. Vincenzo Melis di Guamaggiore con “Ziu Paddori”, le commedie di Tonio Dei di Lanusei e di Antonio Garau di Oristano, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

A chi fa leggere la prima bozza di una nuova storia?

Soprattutto le commedie le faccio leggere per primo al mio dentista, Mario Pisano, che da tanti anni fa teatro con la Compagnia teatrale Antigòrius di Lanusei, la stessa compagnia che porta in scena le mie commedie e le commedie di Tonio Dei. Ecco, quando ti dicevo che le opere vanno lasciate asciugare, volevo dire proprio questo. Appena finita la stesura, consegno il testo all’amico Mario e dopo qualche mese ci sediamo a tavolino e la rivediamo insieme. In due si vedono tanti particolari che a uno solo possono sfuggire, e quindi decidiamo ciò che va lasciato, ciò che va tolto e ciò che va cambiato. Diciamo che per avere una commedia finita ci vogliono circa sei mesi di tempo. Oramai ho fatto l’abitudine e anche le altre opere le svisceriamo con l’amico Mario Pisano che considero oramai il mio tutor.

Ho sentito di scrittori che leggono poco per non farsi influenzare. Lei che ne pensa? Che posto riserva alla lettura?

Se avessi paura di farmi influenzare non andrei nemmeno a teatro a vedere commedie di altri. Ma chi ha la capacità di scrivere non credo sia facilmente influenzabile. Magari avessi tempo per leggere, magari! Purtroppo il tempo è sempre tiranno, dovrebbe essere tanto elastico da poter essere allungato. Però qualcosa la leggo comunque, anche se a spizzichi e bocconi.

Il suo scrittore preferito?

Degli autori moderni preferisco Salvatore Niffoi perché ha il potere di catapultarti nella scena quasi fossi un protagonista tu stesso di quanto accade intorno. Per quanto riguarda gli autori del passato, sono tanti, da Deledda a Oriana Fallaci, ma anche Umberto Eco, senza citare gli scrittori di teatro.

Articolo di Federica Cabras. 

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